Guarda un po’ come si mettono le cose: un ritratto di Daniel Clowes

di Raniero Gatti

C’è stato un momento in cui si è scoperto che c’era un altro modo per fare i fumetti, e questo momento coincide con le edizioni di Daniele Brolli di Lloyd Llewellyn, Ghost World e Caricature. Più tardi sarebbe arrivata Coconino, in maniera più massiccia e strutturata: lì c’erano molti autori che andavano a costruire una sorta costellazione e c’era un progetto che arrivava alle librerie. Ma prima c’era stata la Phoenix di Brolli.
Era il 1992, io avevo 18 anni e leggevo i superstiti della grande epoca delle riviste. Corto Maltese, per esempio, che era una rivista insensata che aveva completamente perso la linea, ma dentro ci si trovavano le cose più diverse: c’erano Pratt e Manara e tutti i classici del fumetto italiano, c’era Il ritorno del Cavaliere Oscuro e Ronin di Miller, Watchmen e V for Vendetta di Alan Moore, Batman Arkham Asylum… Io abitavo in quel mondo lì.
Poi è arrivato Daniel Clowes, primo tra tutti di quella generazione, ed è stato un salto.
Non mi piace la definizione “fumetto letterario”, ma non perché è una definizione ambigua. Non mi piace anzi quando è precisa, è lì che mi dà fastidio. Però Daniel Clowes ci calza perfettamente, perché se cercavi delle cose che ci assomigliassero le trovavi più facilmente nella letteratura che nel fumetto. Quando hai a che fare con Daniel Clowes ti stai rapportando con un autore che è semplicemente in fissa con tutti gli strati, specialmente quelli bassi, della cultura, o meglio della sottocultura, americana: con quel continuo ribollimento creativo totalmente fuori controllo, con la facilità di trasformare ogni cosa in merce che permette di assecondare le idee più pazze che ti vengono in mente. E quindi, se hai una personalità sufficientemente ossessiva e feticistica, come quella di Daniel Clowes, è chiaro che hai un mondo intero a disposizione.

Quando Daniel Clowes ingloba gli elementi più storti della cultura pop riesce a mantenere una certa radicalità grezza, nei primi libri soprattutto: la visceralità, il fatto di crederci a dispetto di tutto. Una volta ho visto la sua collezione di dischi, tutti questi assurdi gruppi di incapaci che pubblicavano roba inascoltabile ma allo stesso tempo magnetica, affascinante. In Come un guanto di velluto forgiato nel ferro c’è un cane che si chiama Foot Foot che è ispirato a una canzone delle The Shaggs, questo gruppo femminile di culto. Per un autore, raffinato e colto, che dice le più importanti cose sulla vita e sull’esistenza, avere questo materiale di riferimento, che ha a che fare con l’inconscio – perché sicuramente non viene dall’intelligenza -, è un valore importantissimo e straniante.

Leggere Clowes era come leggere Thomas Pynchon e tutta la letteratura post-moderna americana che guarda la realtà di sbieco, di lato, come a giocare con quegli oggetti e quella mitologia con uno sguardo un po’ di traverso. Uno sguardo che adesso era entrato anche nei fumetti. Ma se si fosse limitato a fare solo questo, sarebbe stato un autore interessante come ce ne sono stati e ce ne sono tanti altri. Poi è arrivato Ghost World, ed è stato uno shock. Perché in Ghost World si percepiva che dietro quel tipo di immaginario, con cui si poteva andare in fissa e anche perdersi e divertirsi, in qualche misura, c’era la vita vera. La vita reale delle persone.
Ghost World è per me all’altro estremo di Lloyd Llewellyn e di Caricature, dove era più cattivo, lanciando una manciata dietro l’altra. Aveva quest’aspetto di spietatezza che era una cosa abbastanza nuova per i fumetti, ma notevole in generale. Invece Ghost World è forse il fumetto più compiuto di Clowes, forse addirittura il più bello, perché è un po’ diverso da tutti gli altri, come se lì fosse stato capace di sublimare tutta la sua esuberanza post-moderna e guardare ai suoi personaggi con un atteggiamento leggermente diverso: meno sardonico, meno ironico, più rispettoso. Quasi imbarazzato.
Su questa cosa dell’imbarazzo ci si dovrebbe ragionare un po’, perché segna un crinale, uno spartiacque, per interpretare la direzione in cui i fumettisti più maturi di quella generazione si sono mossi. Da Chris Ware, che è “un autore che si preoccupa”, all’androgino Charles Burns, col suo sguardo né maschile né femminile. Daniel Clowes è un autore maschio che porta avanti un punto di vista abbastanza maschile, ma è come se dicesse a priori “io sto parlando di questa cosa da questo punto di vista, qui inizia e qui finisce”. Ghost World invece è diverso, è l’unico libro in cui c’è questa sorta di rispetto/imbarazzo verso il personaggio femminile.

È difficile trovare dei paragoni perché il suo modo di vedere le cose porta avanti un discorso coerente e onesto, legittimo in qualche maniera, ma del tutto personale. Ed è un discorso quasi sempre legato a un’aggressività, che può essere una volontà violenta o semplicemente una tensione costante che porta i personaggi, spessissimo e molto facilmente, verso lo sbrocco. In David Boring meno, perché l’aggressività è un sentimento diffuso che circonda il protagonista ma non gli appartiene del tutto. Ma Come un guanto di velluto forgiato nel ferro, che è il Daniel Clowes più psichedelico, è l’esatto opposto di Ghost World: hai costantemente la sensazione che chiunque possa partire di capoccia da un momento all’altro. C’è questa violenza latente, anche se non succede nulla, che è la stessa di Carver: non accade niente di violento, ma i personaggi hanno comunque i nervi a fior di pelle.
Altre volte però questa tensione non è per niente latente, come in Death Ray e soprattutto in Patience, che però è un libro molto diverso da tutti gli altri. In Death Ray l’elemento fantastico, fantascientifico, è ciò che rende super realistico, quasi naturalistico, il racconto. Invece Patience si prende più sul serio nel suo essere pop, e quindi ha uno sguardo più diretto, meno trasversale. È Clowes che sta facendo il suo fantasy, leggendolo hai l’impressione che ci sia una morale.
In qualche modo si può intuire lo stesso percorso che ha intrapreso Tarantino. Pulp Fiction, così come il primo Daniel Clowes, è frutto dell’ossessione e del feticismo per l’immaginario sottoculturale americano, ma raccontato in maniera “alta”, “letteraria”. Forse autoriale sarebbe un termine più appropriato. Dopo Pulp Fiction esce Jackie Brown, che è costruito come se fosse un film della blacksploitation. È come se avesse rinunciato a metterci il suo sguardo moderno e attuale, volendo invece ricreare qualcosa d’altro. Patience, anche se non del tutto, va in quella direzione. Che la direzione opposta a quella di Chris Ware, fondamentalmente.

Ma torniamo a Daniel Clowes, passando per Sammy Harkham. In Golem Stories c’è un raccontino di mezza pagina in cui Kevin Huizanga incontra Daniel Clowes col suo cane. E allora Huizenga accarezza il cane, che lo morde. E la reazione di Daniel Clowes è “Ahahah, guarda che pazzo questo cane”. Ecco: per me Clowes è un po’ così. Ha questa sorta di risata continua, che può essere un po’ matta e un po’ disperata, un po’ tragica ma al contempo beffarda, di fronte agli aspetti più storti dell’esistenza. Una risata senza giudizio, senza la pretesa di definire cos’è giusto e cosa sbagliato. È come se dicesse “cavolo! Guarda un po’ come si mettono le cose!”.

Bibliografia essenziale di Daniel Clowes

#$@&! L’antologia ufficiale di Lloyd Llewellyn
1992, Telemaco Comics

Ice Haven
2007, Coconino Press – Fandango

Come un guanto di velluto forgiato nel ferro
2009, Coconino Press – Fandango

Wilson
2010, Coconino Press – Fandango

David Boring
2011, Coconino Press – Fandango

Caricature
2011, Coconino Press – Fandango

Mister Wonderful
2011, Coconino Press – Fandango

The Death-Ray
2012, Coconino Press – Fandango

Ghost World
2015, Coconino Press – Fandango

Patience
2016, Bao Publishing

Pussey!
2017, Oblomov Edizioni

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