Bitter Sweet 16

di Lorenzo Ghetti

Non amo il termine adolescenza ma capisco il senso dell’aggettivo “adolescenziale”: qualcosa di estremo, assoluto, in cui un adulto non può più riconoscersi ma che può risvegliare in lui qualcosa di passato. Un diverso modo di vivere se stessi e quello che ci circonda.
Molte sono le storie adolescenziali, a volte con intenzione a volte no, e non necessariamente con protagonisti adolescenti: Dylan Dog è un po’ l’eterno adolescente, sempre innamorato, sempre a camminare nell’ignoto, sempre circondato da così tanti mostri da diventare lui mostro nella normalità. Ma è nel raccontare i ragazzi (e/o per i ragazzi) che l’adolescenzialità diventa concreta e fisiologica.
Nei racconti sull’adolescenza c’è qualcosa di palpabile che sparisce quando i personaggi rappresentati iniziano ad avere qualche anno di più: è molto diverso raccontare un ragazzo di 14 o 16 anni dal raccontarne uno che ne ha 20 (è anche molto diverso raccontare i 14 anni e i 16, se vogliamo essere pignoli). Avranno una spinta diversa, un approccio alla vita diverso.

Senza entrare troppo in distinzioni pedagogiche, quando si arriva ai 12 anni si inizia a volere indipendenza, a voler sentire il peso delle proprie decisioni, ci si sente grandi e si vuole essere trattati come tali. Poi si esce dal liceo e ritrattiamo tutto. Ci sentiamo piccoli, rimpiangiamo la scuola come unico impegno definito e una volta fatti i compiti tutta festa. A vent’anni veniamo lasciati a noi stessi e non sappiamo cosa fare, a 14 sappiamo cosa fare ma non veniamo lasciati in pace.
Questo si sente in una storia di adolescenza, se è ben riuscita. Che voglia essere piena di energia e giapponesamente decisa verso il futuro, disarmante e schiacciata dall’inospitalità del mondo o comicamente nostalgica verso i bei tempi, una storia che parla di ragazzi avrà una tensione specifica e molto diversa sia da una storia di bambini che da una di sub adulti. Possiamo trovare sensazioni simili, ovviamente, ma il senso di smarrimento di fronte al mondo che si trova nei libri di Tomine o di Ware o di Seth è diverso da quello delle cugine Tamaki o di Chuck Forsman. Nei libri di Max de Radigués o ne Il Muretto di Fraipont e Bailly c’è un’energia diversa, una spinta di personaggi che sono ancora tutti in divenire, che tendono a qualcosa. Jimmy Corrigan è uno che è già diventato tutto quello che poteva diventare, si accorge che è tutto lì, e deve trovare il modo di fare i conti con questa consapevolezza, trovare la bellezza nella rinuncia. L’adolescenza è l’opposto della rinuncia, è fame, ostinazione, rabbia, speranza.

Cercare di rappresentare questa fascia d’età può essere sì facile (ci siamo passati tutti, in fondo), ma anche molto difficile. È una sensazione molto specifica, quella di crescere troppo in fretta e troppo lentamente allo stesso tempo. E mentre raccontare una storia di adulti è forse meno rischioso (magari non ci riconosciamo, ma è una vita diversa dalla nostra e quindi va bene lo stesso), dall’adolescenza ci siamo passati tutti. È come un nodo: i fili partono da infinite direzioni, entrano in quel casino lì, e poi escono per prenderne altrettante. Se una storia di adolescenza non funziona, non funziona. Non nel senso generale (applicabile in fondo a qualunque narrazione), ma riferito ad un intento delicato che o viene centrato in pieno, o manca il bersaglio e risulta debole. Nel caso delle storie di adolescenza penso non ci sia una via di mezzo.
Questo non vuol dire che non possano funzionare in modi diversi, in base all’intenzione iniziale. Si possono raccontare tante adolescenze, ognuna di esse ha diverse fasi cronologiche, e ogni fase ha diversi aspetti da esplorare. Ma sotto sotto c’è qualcosa che le tiene insieme tutte, come tiene insieme tutti noi un certo senso di incomprensione o di frustrazione, di amore per un qualcosa di indefinito o se siamo (s)fortunati molto definito, di bisogno di qualcosa che sembra non avremo mai.

Sono tanti i bei fumetti che riescono a donarci un senso di comunione universale, in mille modi diversi, ma riuscire a raccontare una così specifica fase della vita richiede coraggio e intenzione.

Il tutto si complica ancora di più se decidiamo di raccontare un’adolescenza reale ma fittizia. Generare quella sensazione mettendo in scena qualcosa che l’autore non ha vissuto in prima persona, ma che avrebbe potuto. Scrivere di ragazzi richiede una sincerità e una sensazione di pancia che sono difficili da cercare, e creare, al di fuori di sé. Non che raccontare un ragazzo di un’ambientazione non realistica sia più facile, ma il mondo in cui si muove darà al lettore un diverso punto di partenza: la sospensione dell’incredulità parte avvantaggiata e verrà distratta dall’ambientazione mentre un adolescente generato per vivere nel nostro mondo dovrà riuscire a conquistarsi la sua credibilità.
Ovviamente ci sono molti modi per farlo, infinite sfumature. Trovo necessario però dividere le storie di adolescenza in due gruppi molto importanti: una cosa è rappresentarla a posteriori, rifletterci con la distanza e la prospettiva dell’età adulta; un conto è invece ricreare quella sensazione, voler generare nel lettore il misto di rabbia, spensieratezza e schiacciamento che solo quell’età ha.

Da una parte si possono ricordare i bei (?) tempi, dall’altra riviverli, nel bene e nel male.

Faccio un esempio pratico allontanandomi, se posso, dal linguaggio fumetto. Non lasciarmi è un romanzo di Kazuo Ishiguro del 2005. Senza entrare nei dettagli della storia, una ragazza ricorda infanzia e adolescenza in un college inglese e il complesso rapporto con due amici. Tutto è raccontato con un’ovattata pacatezza che è sì il registro stilistico dell’autore ma che serve anche a rendere la razionalità e la distanza con cui il personaggio racconta a posteriori la sua giovinezza. Dal libro, nel 2010 è strato tratto un film omonimo, diretto da Mark Romanek. Qui la scelta di seguire la storia dei tre ragazzi da molto vicino è chiara: il film vuole farci sentire l’impotenza e la disperazione della loro storia. È tutto, insomma, molto adolescenziale, molto forte, molto vicino.

Le due varianti riescono a essere due prodotti ben riusciti e allo stesso tempo molto diversi, raccontando comunque la stessa storia. Deciso l’intento e il modo per ottenerlo il romanzo e il film stanno uno da una parte e uno dall’altra di questa separazione: ricordare o rivivere.
È facile distinguere quali opere vanno in una direzione e quali nell’altra, ma può spesso capitare che una storia rimanga un po’ a metà: che voglia per esempio essere viscerale ma senza che l’autore riesca a reimmergersi (o far reimmergere il lettore) in quello stato mentale, facendo diventare tutto freddo e poco interessante; oppure che la distanza razionale con cui si vuole raccontare una storia di ragazzi renda tutto giudicante o ridicolo.

Se vogliamo poi aggiungere un altro tassello ancora su cui riflettere, possiamo chiederci a quale pubblico è rivolto un certo prodotto. Fare discorsi di target e di mercato non deve necessariamente essere il punto di partenza di un bel libro, ma chiedersi se sia stato scritto per rappresentare l’adolescenza o per dare qualcosa agli adolescenti credo sia importante. E se anche questo non è un pensiero fatto durante la scrittura, a posteriori non sorge il dubbio che il ritratto dell’adolescenza che stiamo dipingendo non venga riconosciuto da chi stiamo cercando di rappresentare?
Non è detto, ovviamente, che sia possibile rappresentare l’adolescenza e parlare ad un adolescente allo stesso tempo: è già difficile fare una sola delle due cose. Ma penso che se un libro riesce a toccare qualcuno che sta vivendo esattamente quello che stiamo raccontando, a prescindere dall’età, dal luogo, dai genitori o dalla scuola, allora forse abbiamo un segnale che quello che stiamo dicendo è sincero. Come toccare chi ha subito un lutto con una storia di perdita o un viaggiatore esperto con un racconto on the road può significare molto, raggiungere un ragazzo con un fumetto sull’adolescenza significa che siamo riusciti a ritrovare un momento della vita che (purtroppo e per fortuna) non tornerà mai più.

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