3.71: “Pronti”, mi rispondeva lui
Sonatina: monologhi (sur)reali a più voci.
di Gnomo Speleologo

Mio nonno mi comprava i giornalini all’edicola. Io gli dicevo quali e lui tirava fuori il portafoglio.
Poi mi portava a casa sua e della nonna, e ci mettevamo a guardare l’Uomo Tigre che lotta contro il male.
Avevo quattro anni e i miei erano iperprotettivi. Mia madre mi faceva guardare solo i classici Disney (avevo una passione malata per Cenerentola), e mi cibava di sola verdura biologica (avevo una passione malata per il pomodoro e per il mais, specialmente quando infilato su per il naso), mentre con mio nonno era tutto diverso. Guardavo i cartoni animati che passavano le reti locali, mangiavo dolci non stop e i giornalini li decidevo io.
In quel periodo Batman si spezzava la schiena contro giganti di muscoli e in copertina si trovavano esseri spaventosi che cercavano di pugnalare terrificanti supereroi ricurvi su ragazze apparentemente morte. Roba tosta. E io era la roba tosta che volevo. “Mi compri Batman?” chiedevo a mio nonno, alzandomi sulla punta delle scarpe e tirandogli il cappotto. “Pronti” mi rispondeva lui.
Il fatto che fosse un parente anziano, padre di mio padre, sangue del suo sangue, a donarmi questo tipo di prodotti giustificava la presenza in casa di qualsiasi giornalino, contenente qualsiasi tipo di violenza grafica.
So che parlare di violenza grafica riferendomi al secondo numero di Batman Saga della Play Press (1995), e di un personaggio mainstream che si veste da pipistrello, potrebbe lasciare interdetto chiunque.
Ma quelli erano gli anni 90, andavano di moda i muscoli e io non avevo ancora sviluppato tutte le sinapsi che ora faccio saltare quotidianamente (traducendo: ero piccolino, e il fatto che fossi piccolino mi legittima a scrivere “violenza grafica”).
Quel fumetto della Play Press mi segnò indelebilmente, segnò me e la mia infanzia, furono le pagine che più sfogliai in tutti quegli anni, e sono le uniche che, solo ripensandoci, riescono ancora a farmi provare con precisione il senso di terrore ed estremismo narrativo (sia nella forma, che di contenuti) che sperimentavo a quattro anni.
Uno spillato che conteneva pazzi in fuga da un manicomio e che andavano a sbattere contro un albero (sangue dal naso e dalla bocca), risse con accoltellamenti (sangue dalla schiena), energumeni coi denti in evidenza nel buio, sadici ragazzi meraviglia in grado di catturare falchetti e mostrare sadici sorrisi ambigui, calzetti che parlavano, assassini ricoperti di cicatrici che leccavano la lama di coltelli (sangue dalla bocca), poliziotti sgozzati (sangue dal collo), uomini coccodrillo con le braccia ingessate vivere nelle fogne e tentare di mangiarsi topi e, soprattutto, le pagine che più mi impressionavano, Robin legato e con una benda sugli occhi provare a combattere Bane e, senza volerlo, trovarsi in una rissa tra quest’ultimo e Killer Croc (non sapevo si chiamasse così) precipitando in un canale di scolo fognario e tentare di sopravvivere senza accorgersi di ciò che pensavo essere la pinna di uno squalo proprio dietro di lui (spoiler: mi sono accorto due giorni fa, pensando a questo pezzo, che è semplicemente l’angolo del suo mantello).
Non sapevo leggere, non capivo cosa stesse effettivamente succedendo su quelle pagine, ma quel giornalino ai miei occhi incarnava il perfetto mix di ambiguità morale, sofferenza, violenza, disperazione ed estremismo del racconto.
Purtroppo non ebbi mai la possibilità di continuare l’episodio, quello fu l’unico numero che riuscii a ottenere da mio nonno; ma lo sfogliavo e risfogliavo quotidianamente e ogni volta, con la saggezza intrinseca dei bambini, intuivo che quel Robin, nell’acqua, legato e circondato da squali, uomini coccodrillo e giganti mascherati, non sarebbe mai e poi mai potuto uscirne sano e salvo.
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