Oscurità. Un’intervista a Michele Nitri

Abbiamo intervistato Michele Nitri, l'(oscura) volontà dietro Hollow Press, per chiacchierare su com’è nata la casa editrice, qual è stata e quale sarà la sua direzione, approfondirne lo stile e le politiche editoriali.

Hollow Press è una casa editrice abbastanza giovane, a fare i conti, ma si è affermata in fretta e a ripensarci sembra che esista da molto più tempo. Com’è nata l’idea di crearla?

Sono sempre stato un appassionato di fumetti, soprattutto underground, ma in Italia la proposta di quel tipo di fumetto, più estremo e alternativo, non era così ampia. Così mi sbattevo tantissimo per cercare le gemme, anche le più nascoste, comprandole soprattutto all’estero. E quindi diciamo che volevo pubblicare i fumetti che avrei voluto leggere. Non ho però calcolato un piccolo inconveniente: da quando ho aperto Hollow Press non ho più letto davvero nessuno dei miei fumetti, quelli che pubblicavo perché avrei voluto leggerli, perché me li sono sempre spoilerati volta per volta.
Quello che poi ricercavo in coloro i quali sarebbero diventati i lettori e i sostenitori della casa editrice era un’attitudine a non farsi servire su un cucchiaino un prodotto da leggere. E questo ha fatto sì che quando scoprivi Hollow Press poi magari non la abbandonavi più. Perché quando finalmente trovi qualcosa che ti piace così tanto si crea un legame particolare. Questa è stata un po’ la genesi per quanto riguarda le intenzioni. Se vogliamo parlare del genere, invece, sicuramente tutto deriva dal fatto che in quel periodo stavo in fissa totale per Mat Brinkman.

Ah, sul genere ci torniamo di certo. Ma mi fermerei un attimo sulla questione del non farsi imboccare col cucchiaino. Mi ritorna in mente un articolo uscito su Fumettologica poco dopo la nascita di Hollow Press quando ancora non eravate distribuiti e pubblicavate solo in inglese. Insomma, in questo articolo Marco Andreoletti chiudeva commentando che
il tutto [è] in rigorosa lingua inglese, perché questo tipo di iniziative non sono solo uniche in Italia ma rarissime anche a livello mondiale. E se non ne siete ancora convinti probabilmente non siete il tipo di persone a cui Hollow Press ha deciso di parlare.
Ti chiederei un commento a questa interpretazione, anche alla luce dei cambiamenti di Hollow Press che l’hanno portata ad essere distribuita da Manicomix nel circuito delle fumetterie e a pubblicare anche in italiano. Che sono cose che ritengo positive, non mi fraintendere, ma voglio essere provocatorio. C’è stata una sorta di normalizzazione? Avete comprato dei cucchiaini?

Allora, ti rispondo subito in modo semplice dicendoti le motivazioni che stanno dietro a queste scelte. Che non si basano su una qualche forma di egocentrismo o su un discorso del tipo “le cose si devono fare in un certo modo, tutto il resto è sbagliato”. Quindi adesso Hollow Press ora è distribuita, solo in fumetteria perché il metodo distributivo delle librerie al momento non mi interessa, perché si sono raggiunti degli accordi che rispettano le mie politiche aziendali. Appena dopo aver aperto, contattai diversi distributori perché questo poteva significare più liquidità, più prestigio, più tirature e quindi più royalties per gli autori, ma non mi piacevano assolutamente le condizioni e la cosa finì lì. Anche perché non ho mai voluto basare una grossa fetta delle vendite sulla distribuzione: il nucleo doveva rimanere la vendita diretta.

Due anni dopo, quando a Lucca 2017 ci fu il boom con Shintaro Kago, Rust Kingdom… Manicomix non sopportava più l’idea che diverse fumetterie gli chiedessero quei libri e fosse così impossibile averli. Allora mi hanno contattato, e per questo li ringrazio perché è nata una bella collaborazione, si è raggiunto un punto di incontro: le mie condizioni sono sempre state estreme mentre le condizioni dei distributori non mi sono mai piaciute, però un passo in avanti lo dovevamo fare entrambi.

L’altra questione riguarda la lingua, che è qualcosa che secondo me all’epoca è stata mal interpretata. Il punto era che non pubblicavo autori italiani. A parte Ratigher, ma non si poteva fare l’edizione in italiano di una rivista per un solo autore lì in mezzo. Quindi, pubblicavo solo autori esteri e il presupposto era che avrebbero venduto di più all’estero. Così ho dato l’idea di voler pubblicare solo in inglese, ma non è così: è solo che la situazione allora era quella, e fare le doppie edizioni è difficile.
Quando poi ho cominciato a pubblicare autori italiani, quella è diventata la priorità. Hanno comunque una tiratura in inglese, perché continuo ad avere il mio sistema e i miei clienti all’estero che devono poter leggere quei libri, però il grosso del mercato si è spostato qui.

Visto che parlavi di condizioni di distribuzione… una cosa che bene o male si sa di Hollow Press è che propone agli autori condizioni contrattuali inusuali, con più soldi e con la vendita di tavole originali. Ci puoi raccontare qual è il tuo modello produttivo? Perché l’impressione che ho sempre avuto è che Hollow Press sia sempre stata un editore molto diverso da tutto gli altri, e che questo derivasse dal fatto che è una realtà nata al di fuori del mondo fumettistico e che quindi non è stata influenzata dalle sue storture.

Penso che la maggior parte degli editori abbia fatto un percorso molto simile: in qualche modo appartenevano già al mondo del fumetto, magari qualcuno lavorava già per qualche altro editore e alla fine si dissocia e decide di aprire una propria realtà. Le basi dietro a Hollow Press sono state completamente diverse. Forse anche per una questione geografica non sono mai stato dentro le dinamiche fumetto, anzi avevo un riferimento completamente diverso: quello della vendita dei detersivi. In più sono un collezionista di tavole originali da quando avevo 17 anni. Questo ha comportato che Hollow Press si ponesse in maniera atipica, diciamo, nei confronti del mercato.
Poi un approccio preciso e predefinito non c’è: il mio compito, se sono un bravo editore, è riuscire a dare all’oggetto giusto la veste giusta e nel momento in cui ti poni delle regole perdi la libertà rischi di fossilizzarti in un egocentrismo inutile. Questo vale anche per i contratti e i metodi di pagamento: ci sono molti modi di essere pagati, come autori, da Hollow Press. La base è sempre royalties al 15%, che sono quasi il doppio della media. Poi a questo si affianca una rivendita di tavole originali, che io acquisto in anticipo per ogni pubblicazione. È un mercato che sto creando pian piano, ma questo permette all’autore di avere subito due fonti di guadagno. Non dico che si arriva a farne un lavoro a tutti gli effetti, perché sappiamo bene che questo è uno dei grandi problemi dell’editoria a fumetti, ma sicuramente c’è una retribuzione più appropriata che in altre situazioni.

Una cosa che ho sempre molto apprezzato di Hollow Press, che va un po’ di pari passo alla vendita di originali, è l’approccio molto intelligente alle “edizioni variant”, diciamo così. Da Largemouths in poi, l’edizione figa dei tuoi libri non è semplicemente l’edizione con la copertina diversa, ma è…

Cartotecnicamente superiore.

Notevolmente superiore. Questa cosa, assieme alla questione degli originali, magari inseriti nei cofanetti come per Shintaro Kago e Gnomicide, va in una direzione di feticcio per l’oggetto. Ma al contempo non è un feticismo sterile, che crea dei soprammobili e basta. Anzi il fare anche l’edizione “economica” tiene ben in vista il fatto che il fumetto è comunque, in primo luogo, un qualcosa da leggere.

Perché l’importante è fare comunque l’edizione accessibile a tutti, anche a chi non vuole investire tanti soldi in quel fumetto ma vuole comunque leggerlo. Poi su alcuni prodotti ci sono edizioni deluxe o altre iniziative particolari, e chi se lo può permettere… Ma in realtà io sono del parere che non è una questione di poterselo permettere: uno per interessarsi al fumetto sicuramente riesce a campare, stiamo parlando comunque di una cosa elitaria, non del pane e della pasta. Quindi è una questione di scelta. L’esempio di Gnomicide è perfetto: c’è l’edizione cartonata con l’originale dentro a 60 euro, ma poi c’è anche la versione a 10 euro. E stiamo parlando di un libro di 64 pagine, sono prezzi da grandi editori. Quindi se ci tieni ti privi di qualcosa e prendi la versione più bella, però, ovviamente, è anche giusto vendere un prodotto che sia il più fruibile possibile.
Per quanto riguarda il feticcio ho un bell’aneddoto. Penso che ognuno di noi sia un collezionista per via di un motivo particolare, che è personale. Io faccio molta autoanalisi per capire il perché di determinate scelte e, magari, per migliorarmi. E c’è questa che è una storia a cui tengo molto che mi ha fatto capire perché sono un collezionista.
All’età di 11 anni, stiamo parlando di 18 anni fa, fui uno dei primi ad avere un pc. Era un Pentium 133, poi qualche anno dopo ebbi un computer un po’ superiore, ma mai all’avanguardia. E non ho mai avuto console, forse perché avevo dei genitori un po’ particolari… Sicuramente non mi potevo permettere i giochi originali con la scatola bellissima da 100 mila lire. Però una cosa che mia madre non mi faceva mancare mai, visto che ci tenevo, era l’abbonamento a Giochi per il mio computer, nel quale c’era un doppio disco: uno con delle demo a cui non potevo giocare perché erano giochi nuovi che richiedevano computer più nuovi del mio, e l’altro un gioco completo talmente vecchio che riuscivo a giocarci anch’io. Quindi per pochi soldi ogni mese avevo un gioco a cui giocare.
Ma la cosa che mi ha colpito di più, ripensandoci tanti anni dopo, è che io quelle riviste le leggevo e lì dentro ci trovavi giochi bellissimi, con la grafica di ultima generazione e una giocabilità assurda. Li desideravi e sapevi che non ci avresti mai potuto giocare. E il paradosso è che dopo due anni, quello stesso gioco, te lo regalavano! Tipo Black & White! Quando uscì, il nuovo gioco dai produttori di Dungeon Keeper, era rivoluzionario. E io l’ho sognato per anni senza poterlo avere. Poi me l’hanno regalato a 5 e 99.

Nel momento in cui desideri tanto delle cose hai bisogno, quando puoi, di sfogare questa che è un’esigenza. È un modo per sentirsi appagati con se stessi, non è per dire “ah, io ho questo e tu no”, quello è un presupposto sbagliato. Sono cose alle quali tu dai un valore specifico proprio perché le hai desiderate tanto.

Andando invece dentro alle storie, ché mi sembra che questa sia la conclusione perfetta per questa prima parte, tu definisci il genere di Hollow Press come “dark weird fantasy”. Mi daresti una definizione?

Ti dico prima com’è nato questo termine e poi qual è, secondo me la sua definizione. Stavo in fissa con Brinkman e cercavo di definire il suo genere. Ci sarà un sacco di gente che penserà “eh, vabbé! Ma perché affibbiare un genere a qualcosa, non sarebbe meglio fare le cose in libertà?”. Secondo me è una gran cazzata. Perché se mi piace qualcosa devo poter andare su un motore di ricerca, o quando non c’erano sull’enciclopedia, e cercare altre cose vicine a quello che mi interessa. Quindi perché è sbagliato mettere un’etichetta?
Quindi io volevo mettere un’etichetta a quel genere di fumetto perché nessuno l’aveva ancora fatto. Era fantasy, era dark, ma mancava qualcosa. E alla fine ho pensato “secondo me è weird”. E lì è nato il dark weird fantasy, che poi è stato racchiuso nel contesto dell’underground da cui l’acronimo della rivista U.D.W.F.G.: cioè “under dark weird fantasy ground”.
Dark weird fantasy è qualcosa che mi permette di ricordarmi di quando ero ragazzino ed ero un divoratore di fantasy in tutti i media possibili e immaginabili. Poi purtroppo a un certo punto della mia vita mi sono cominciato ad annoiare: erano tutti uguali, ripetitivi e non riuscivo più a leggerli, anche perché erano troppo fantasiosi, diciamo, mentre poi la vita era cruda e io dovevo essere cinico. Quindi mi si creava una sorta di controsenso, come se fossi diventato troppo grande per quelle cose. Non dico che è così, che sia giusto, è una cosa soggettiva, una mia sensazione.
Il dark weird fantasy è diverso. E non esiste solo nel fumetto, anzi nasce principalmente nella narrativa: tutto il fantasy, anche quello più commerciale da cui poi è partito l’heroic fantasy, nasce dal Conan di Howard e prima ancora dal The night land di William Hope Hodgson. La cosa bella di questo genere, per quanto mi riguarda, è che i personaggi non sono eroi, non c’è distinzione tra bene e male. Per contenuti è come leggere Daniel Clowes: hai temi molto seri nei quali ti ci puoi rispecchiare, un’estetica fantasy e un piglio storto a renderlo weird.

In questo contesto, dentro Hollow Press vedo tre filoni, che procedono di pari passo e vanno a costruire un discorso: c’è il recupero o comunque la proposta di grandi classi, quindi Brinkman, Tawaraya e le Benemerenze di Satana; poi la ricerca di autori affermati, facendoli fare qualcosa di tendenzialmente diverso dalla loro produzione abituale, il cui caso più esplicito è Palla di Bacilieri; e poi gli esordienti.
Come nascono la ricerca e l’esplorazione di queste tre strade?

È una domanda difficilissima! O meglio, è difficile prenderla dal lato giusto. Partiamo dicendo che, come ti ho detto prima, non mi sono mai posto limiti, quindi è giusto lavorare in diverse direzioni, da diversi punti di vista.
La parte di recupero è in realtà quella su cui lavoro di meno, perché lì diventa una questione di diritti mentre io preferisco fare cose sulle quali riesco a mantenere in un certo qual modo l’esclusiva, e questa non è solo una questione di marketing ma anche di identità. Però ci sono delle eccezioni. Per esempio la Tetsupendium Tawarapedia, che tra l’altro è un titolo che si è inventato Mat Brinkman: gli avevo chiesto di scrivere un commento da usare come post-fazione del libro e lui, inviandomelo, mi scrisse “ecco il commento per la Tetsupendium Tawarapedia”; e io ho detto “cazzo, bellissimo! Posso usarlo come titolo?” e a lui andava bene. Comunque, lì erano lavori handmade di Tawaraya stampati in pochissime copie ormai introvabili, quindi anche se era un lavoro di recupero avevo quella sensazione di esclusività che a me piace tanto. Oppure anche libri molto vecchi come Largemouths di Gabriel Delmas, che aveva ormai 10 anni. E lo stesso discorso si può fare tranquillamente anche con Mat Brinkman. Dopo la pubblicazione con Picture Box ci sono stati moltissimi editori che gli chiedevano di ripubblicare i suoi lavori, ma io sono riuscito a convincerlo: gli ho proposto una cosa talmente grande che o mi farà fallire o mi farà diventare grosso il doppio. È così che dev’essere lo spirito imprenditoriale, perché altrimenti facciamo le cosucce, stiamo a casa nostra e finisce lì.

Invece per gli esordienti e le commissioni? Ti arrivano delle proposte o vedi delle cose e sei tu a fare la prima mossa?

Le commissioni partono sempre da me, perché autori così affermati hanno i loro impegni e le loro cose, non è che si mettono a cercare cose completamente nuove, diverse… Quindi sono io a contattarli, poi magari due su tre non mi rispondono o mi danno picche perché hanno un casino di cose da fare, ma poi per un motivo o per l’altro riesco comunque a infilare dei libri molto interessanti.
Per gli esordienti invece non c’è assolutamente una regola, anche meno che per il resto, proprio perché parliamo di esordienti. Per dirti, Lorenzo Baroni, LaurenceEngraver, l’ho conosciuto tramite Ratigher che era suo insegnante di fumetto a Roma. Danilo Manzi si propose lui e il progetto mi piacque talmente tanto che decisi di pubblicarlo subito. David Genchi invece non mi convinse subito, però ci vidi qualcosa di interessante quindi lo ricontattai io in un secondo momento per capire cosa stesse facendo. Mi è piaciuto come si stava evolvendo artisticamente e quindi da lì è nata la nostra collaborazione. Spugna invece è un discorso un po’ diversi: era già abbastanza conosciuto, quindi non proprio un esordiente puro; lui ha sempre stimato la casa editrice quindi ci dicevamo da sempre di fare una cosa insieme. Così nato Rust Kingdom, che credo sarà una relazione duratura.

Chiuderei con una domanda da fa. Nel 2018 hai fatto quasi venti titoli, un botto. Cosa ci aspetta l’anno prossimo?

Eh, la sfida è trovare cose sempre più interessanti! Ti faccio qualche esempio di cose che arriveranno. Sicuramente proporrò un libro più lungo di Kago e un pagan horror, che è un genere molto interessante, di Jesse Jacobs. Poi proseguirà il pazzesco lavoro di recupero di Brinkman, che ci accompagnerà per almeno tre o quattro anni. Ci sarà una data per la conclusione di U.D.W.F.G. e un libro di David Genchi di cui Lo fallo perduto è una sorta di spin off.
Comunque la cosa importante, a questo punto, sarà lavorare su quello che abbiamo già, migliorandolo. Non puoi arrivare a pubblicare 30 libri all’anno, diventa deleterio, quindi secondo me il lavoro che devi fare è continuare a costruire rendendo più grande e più importante quello che già hai, senza disperderti. Questo sarebbe un errore gravissimo, che non farò mai. Poi è vero che mi ero prefissato come massimo una dozzina di libri all’anno e sono arrivato a 17, ma non sono tutti libri corposi, alcuni sono quasi delle zine quindi riesco a tenere il passo. Ma penso di essere arrivato al limite.

2018-10-26T17:26:23+00:0026 / 10 / 18|Interviste, Numero 3: ESTREMO|0 Comments

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