Verso il fumetto

Prima parte

di Alessio Trabacchini

I fumetti sono troppi: elevati alla dignità di oggetto culturale nobile, per quanto minore, e precipitati nel mondo dell’editoria libraria, conquistano scaffali e si affacciano dalle vetrine, sebbene per il tempo limitato concesso dalla ruota della distribuzione. Sarebbe opportuno chiedersi qual è il ruolo svolto da questa cosa che oggi chiamiamo graphic novel all’interno del circolo delle arti, nell’ambiente delle narrazioni. Tuttavia la crescita sembra seguire in modo fin troppo piatto le logiche del mercato – esiguo, agonizzante, ma perfettamente in grado di imporre le sue leggi anche dal letto di morte – e di un supposto gusto condiviso.

In Italia, il sistema del fumetto è diventato un piccolo caleidoscopio instabile. Il fumetto popolare, quello da libreria e l’autoproduzione costituiscono mondi permeabili e disponibili a confondersi, sovrapporsi, scambiarsi autori, modalità produttive e strategie di promozione.
Il fumetto “popolare” italiano – padrone di un campo ancora molto vasto, per quanto in costante erosione – intensifica l’innesto con quello “autoriale” e rastrella immaginari un po’ dovunque, sottoponendoli alla cura normalizzante delle sue regole. La coazione citazionista – propria dell’industria culturale, comunque vogliamo intenderla – è diventata una sorta di automatismo che ha l’incarico di sorreggere un’impalcatura diventata fragile. È la crisi naturale di un medium non più di massa, che vede l’inesorabile svanire della sua capacità di incidere sull’immaginario condiviso e di orientarne la direzione.
L’autoproduzione, felice peculiarità dell’editoria a fumetti, divide il proprio campo d’azione con gli editori più piccoli, e celebra una raggiunta e consapevole autonomia, in virtù della quale essere pubblicati da un editore “vero” è una possibilità sempre presente, ma non più un obiettivo necessario. Autonomia dei mezzi di produzione, resa possibile dalla tecnologia, che è anche autonomia estetica, cominciando dalla difesa della narrazione breve contrapposta alla misura e all’ideologia romanzesche, per finire con il rifiuto della narrazione stessa. Con un pubblico esiguo, ma affezionato e compatto, sufficiente a sostenere gli autori, il rischio più ovvio è quello di una confortevole autoreferenzialità che, una volta contratta, non può essere curata nemmeno dal piccolo mondo della rete globale.
Intanto il graphic novel, che qui intendiamo nel senso di fumetto da libreria, si trova invischiato nelle storture comuni a tutto il mercato editoriale, quelle che portano alla sovrapproduzione e a un’idea di cura editoriale che spesso si ferma alla mera confezione della merce. Ma la partita più importante che si apre ora di fronte ai fumetti si gioca nella possibilità – o nella necessità – di divincolarsi dai lacci dei generi che hanno dato loro una nuova visibilità e ne hanno decretato il successo: l’autobiografismo e la retorica parassitaria del tema “importante”, dell’impegno esibito.

Per il poco che comprendiamo di quello che succede, più che riflettere sul futuro incerto di un’arte che si trova a espandere i suoi confini mentre il supporto di cui si serve, il libro, perde drasticamente terreno, vale forse interrogarci su quello che dovremmo ragionevolmente cercare, qui e ora, nei fumetti. E nel graphic novel, protagonista della crescita, che a volte è la sineddoche del fumetto, altre il contraltare, altre ancora il prestanome.
Fuorviante come qualunque altro termine o locuzione abbia definito le immagini narrative nel corso della loro storia e a qualunque latitudine, l’espressione “graphic novel” ha il demerito di focalizzare eccessivamente l’attenzione sulla forma romanzesca.

In effetti, per quanto la struttura narrativa e la confezione editoriale esibiscano l’acquisizione, o almeno l’imitazione, dei caratteri del romanzo tradizionale, possiamo rilevare che la sostanza del nuovo fumetto si è piuttosto tenuta, con sempre maggiore consapevolezza, entro i confini della non fiction. Non solo per la centralità del genere autobiografico, nelle sue accezioni memorialistiche e diaristiche fino all’autofiction, e neanche soltanto per i quasi altrettanto copiosi filoni della ricostruzione storica e dell’inchiesta giornalistica, ma anche per un’attitudine al racconto dove il commento e l’interrogazione, prima di tutto dell’autore verso sé stesso, hanno assunto un peso crescente. È un portato dei tempi (anche la letteratura e il cinema si sono mossi in questa direzione) che trova nel fumetto, fondato sull’articolazione dei rapporti tra parola e immagine, un veicolo d’elezione.

Per comprendere il fumetto di oggi, e ipotizzarne le evoluzioni, può rivelarsi allora utile forzare i limiti della grande metafora romanzesca con la quale si è voluto considerarlo e comunicarlo negli ultimi anni. Si tratta di prendere sul serio, quanto basta, le categorie letterarie che siamo abituati ad applicare ai fumetti e quindi di individuare chiavi di lettura alternative che, pur senza negarla, mettano in crisi la centralità dell’analogia con la narrativa.
Riflettere sulla non-fiction è un passo in questa direzione, a patto di non limitarsi al gioco delle etichette e a posizionare certo fumetto all’interno di questo sterminato e umile macrogenere che si definisce per negazione.

Più utile è distinguere le emergenze di una sincera vocazione saggistica. Dando però al saggio la pienezza del suo significato: non strumento di divulgazione – un servizio che nella civiltà della comunicazione globale e digitale finisce spesso per andare a ispessire il rumore di fondo –, ma ricerca di profondità ed esplorazione di confini, atto creativo che parta da un’urgenza reale e da uno sdoppiamento che diventa critica, riflessione e gioco.
Ci sono casi in cui la natura del saggio è preponderante e costituisce la ragione, la direzione e la struttura dell’opera, come negli ultimi libri di Chester Brown, e altri dove la funzione saggistica agisce in maniera meno plateale. Nel dittico Fun e More Fun, Paolo Bacilieri intreccia autofiction, diarismo sublimato, una storia letteraria dell’enigmistica, una riflessione metalinguistica sul fumetto e il suo sguardo disincantato ma non cinico sul presente. Ecco un esempio adeguato delle possibilità del graphic novel come forma saggistica evoluta, dove il racconto sembra seguire il suo stesso commento, dove a guidare è l’articolazione del pensiero.

Se il valore di un’opera è commisurabile alla necessità che la muove, riconoscere una vocazione saggistica significa anche rendere più complesso il riconoscimento di questa necessità, non adagiarlo esclusivamente sulle responsabilità – o sulla mitizzazione – del racconto. Tanto più che l’idea critica di racconto è talmente inaridita che sempre più spesso si riduce all’analisi, se non alla mera percezione, dell’efficacia dello storytelling secondo certi parametri acquisiti. Ma è davvero questo che cerchiamo quando leggiamo un fumetto? È tutto quello che possiamo ottenere?

Una prima versione di questo articolo è apparsa sul n. 198/199/200, dicembre 2016 – febbraio 2017, della rivista «Lo Straniero» con titolo Una caleidoscopica confusione. Qualcosa è stato aggiunto, qualcosa è stato tagliato, il risultato è sensibilmente diverso.

2017-07-26T12:14:36+00:0024 / 07 / 17|Articoli, Numero 1: L'età dell'oro|0 Comments

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