Un’asettica narrazione empatica: un’intervista a Nick Drnaso

Abbiamo intervistato Nick Drnaso, autore di Beverly (Coconino Press – Fandango, 2016), per parlare della sua poetica e della sua visione del mondo, di come sia nato un libro d’esordio tanto duro quanto straordinario, e di come dovremmo leggerlo.

Puoi raccontarci come hai deciso di diventare un fumettista?

Quello che mi spingeva a provare a disegnare fumetti quand’ero più giovane sembra molto diverso da qualsia sia la cosa che mi motiva oggi. E non sono sicuro di cosa potrei dire di interessante a riguardo: alla fine al lettore, che vuole essere intrattenuto da una storia, non importa. Questo non vuol dire che non mi interroghi sui motivi che mi portano a fare i fumetti ma poi, quando divento davvero coinvolto in un progetto, diventa una cosa compulsiva.

Beverly è un libro d’esordio eccezionale, davvero straordinario sia visivamente che narrativamente. Com’è nato?

Beh, grazie! Ho cominciato a lavorare alla prima storia del libro più o meno una settimana dopo essermi diplomato alla scuola d’arte. Stavo semplicemente cercando di rimanere produttivo mentre mi sostenevo economicamente come bidello, e lavorare a una storia breve che parlasse del mondo che avevo direttamente attorno e alcuni dei miei colleghi sembrava un’attività innocua. Ma questa è stata solo la prima storia. Progressivamente mi sono sentito sempre più a mio agio a scrivere storie di finzione, e ogni storia del libro si è allontanata sempre di più dalla mia vita o da qualunque cosa che fosse autobiografica.

Beverly ha una sorta di gusto unico. Se da un lato non è difficile intuire delle eco di altri artisti, sto pensando per esempio a Chris Ware, Adrian Tomine, forse Sammy Harkham, il tuo lavoro non è riducibile a un semplice pastiche di stili definiti. Da dove credi che derivi il tuo gusto estetico?

Da un punto di vista pratico, l’assenza di ombre e dettagli di sfondo deriva semplicemente da un limite di tempo e fatica: i lavori che facevo mentre disegnavo Beverly erano abbastanza ripetitivi fisicamente, avevo giusto qualche ora alla sera per disegnare con le mani che pulsavano per aver spazzato e pulito tutto il giorno. Quindi ho dovuto sviluppare uno stile che mi consentisse di produrre le pagine a un ritmo accettabile.
Oltre a questo, trovo che questo stile fatto di linee pulite e dettagli minimali calzi bene con la mia sensibilità. Lo stile è una cosa inconscia, penso, almeno per me. Semplicemente assorbi, sperabilmente non troppo, le cose che ti piacciono e quando è il momento di sedersi e disegnare, tutto viene distillato.

C’è un contrasto interessante tra i tuoi disegni, che sono così geometrici, quasi asettici, e una narrazione molto concentrata sulle emozioni e sull’effetto che gli eventi hanno sulle psiche e l’umore dei personaggi. Il risultato è in qualche modo allo stesso tempo distaccato e molto empatico. Come funziona descrivere in questo modo la realtà e il sentimento?

Grossomodo in linea con quanto dicevo poco fa, queste distinzioni, questo contrasto come lo chiami tu, diventano molto sfocate mentre sto disegnando. È ancora una volta solo la mia esperienza personale, forse ci sono degli autori capaci di mantenere un qualche grado di oggettività, ma nel mio caso tutto questo si perde nel momento in cui comincio a scrivere. Non è male sentirsi dire che stile e contenuto sembrano mescolarsi bene, ma è una cosa che non riesco a valutare mentre lavoro, e nemmeno a qualche anno di distanza dalla fine del libro.

In tutto il libro c’è una singola vignetta che stacca da tutte le altre, con uno stile completamente diverso: è il ritratto del (presunto) stupratore nel racconto “Virgin Mary”. Come mai è così diversa?

Quel capitolo si basa su una storia vera accaduta nella zona dove sono cresciuto, appena fuori Chicago. E quel ritratto si basa sullo sketch della polizia che era circolato dopo il rapimento. Mi sono chiesto per molto tempo se quest’immagine così illustrativa a matita avrebbe rotto la consistenza stilistica del libro, ma una volta che l’ho inserita nella storia mi sembrava che funzionasse a dovere. In più, in un libro stampato è bello avere un’anomalia sulla quale ci si può soffermare mentre si sfogliano le pagine…

Invece nella storia “Il piccolo re” il protagonista ha delle visioni, delle allucinazioni estremamente violente. Ma queste visioni sono disegnate esattamente con lo stesso stile del resto del libro, della realtà di Beverly. Questo in qualche misura pone reale e immaginario sullo stesso piano di esistenza.
Come possiamo capire, in Beverly ma anche nel mondo in cui viviamo, cos’è reale?

Beh, sembrava logico infilare le allucinazioni nella storia più silenziosamente possibile, perché è questo il modo in cui le persone che soffrono di visioni le sperimentano: in un modo disorientante, proprio perché non sono distinguibili dalla realtà.

Quando hanno chiesto a Stanley Kubrik di The Shining, lui rispondeva riguardo gli avvistamenti di fantasmi e di fenomeni paranormali che tutte le persone descrivono queste visioni come qualcosa di reale, vivida, con i fantasmi che appaiono come le persone viventi, non come le entità sinistre e fluttuanti a cui pensiamo abitualmente o che vediamo nei film. Quindi Kubrik stava in realtà lottando contro l’idea di “hotel infestato” dell’art director e contro l’immaginario che il costumista aveva dei fantasmi.
Immagino che in questo senso ne “Il piccolo re” ci siano dei rimandi a The Shining, che è un film che ho visto da piccolo assieme a mio padre e che ha avuto un effetto profondo su di me.

Beverly inizia come una collezione di storie brevi, apparentemente sconnesse. Ma avvicinandosi alla fine il lettore può intuire una sorta di intreccio, come se ci fosse un disegno più grande che tiene tutto assieme.
È una cosa che hai pianificato, concentrandoti sulla costruzione di un mondo coeso, o è invece spuntata spontaneamente, dal toccarsi e sovrapporsi di personaggi e situazioni?

È stato molto spontaneo, ma penso che fosse in realtà la mia intenzione appena dopo aver scritto la seconda storia. Ripensandoci adesso sembra un po’ un trucco, come uno stratagemma narrativo del quale puoi abusare per rendere interessante una scena o aggiungere significato a qualcosa di in realtà molto artificioso. Ho provato ad usare poco questa tattica, soprattutto nel modo in cui i personaggi appaiono a diverse età in altre storie. Penso che ci sia comunque qualcosa di utile in questa forma di storytelling, soprattutto nel fumetto e in contrasto a quanto accade nei film, dove non devi preoccuparti dell’effettiva età degli attori.

Come mai, nell’epoca del graphic novel e in generale delle forme lunghe, hai deciso per il formato “raccolta di storie brevi”? Pensi che funzionino meglio per rappresentare la realtà?

La struttura a racconti brevi mi ha permesso di fare anche dei grossi salti nella cronologia di Beverly e di lasciare che fosse il lettore a riempire le discontinuità. Inoltre disegnare storie brevi è un’attività molto attraente perché disegnare fumetti è un processo lento e per me è difficile rimanere entusiasta per un progetto che richiedere anche svariati anni di lavoro. Zigzagare tra le storie e cambiare improvvisamente focus mi aiuta a uscire da una ristrettezza di vedute, una sorta di tunnel vision, nella quale è facile cadere disegnando fumetti.

Leggendo Beverly non posso che sentirmi un po’ a disagio: sotto la superficie, l’umanità sembra in qualche modo disperata e il mondo un gran brutto posto dove stare. Sto principalmente pensando ai racconti “La storia più triste del mondo” e “Budino”, che mi hanno comunicato una disperazione totale. C’è, da qualche parte, una qualche forma di speranza?

Non sono molto a mio agio con alcune delle cose, che hanno portato e comprendono Beverly, che ho fatto quand’ero più giovane. Vedere questo libro sugli scaffali è una sorta di processo vergognoso: se devo essere completamente onesto, non mi sento del tutto a posto a riguardo. Non pensavo che Beverly fosse un libro triste mentre ci lavoravo, il che di per sé è una realizzazione disturbante… Tutto quello che posso dire è che sto cercando di cambiare e di non fissarmi su singole certezze riguardanti il comportamento umano.

Il titolo del libro viene dalla massaggiatrice de “Il re”. Com’è che proprio questo è diventato il titolo? Dovremmo leggere questa scelta come un’indicazione che la storia di Tyler, e l’evoluzione del personaggio, sia più importante delle altre? D’altro canto, se mi ricordo bene, è l’unico ad esser protagonista di due racconti, due scene separate di molti anni a lasciarci vedere la sua crescita.

Beverly è un quartiere nella parte sud di Chicago. Ho deciso che quello doveva essere il titolo molto presto nella vita del progetto, ben prima di pensare di usarlo come nome di un personaggio. Per quanto riguarda invece le esperienze di Tyler e la sua trasformazione, penso che il suo percorso sia la storia centrale del libro, anche se spero che ci siano abbastanza digressione da non farlo sembrare sempre al centro dell’attenzione. A un certo punto ho dovuto abbandonare l’idea di stabilire a priori una struttura, così l’idea per ogni storia mi è venuta organicamente ma separatamente, e ci ho lavorato sotto la fragile impressione che i il mio istinto mi stesse guidando bene. Questo però non vuol dire che non ci sia stata una lotta costante contro un’insicurezza tremenda.

Hai una storia preferita, tra quelle che compongono il libro?

Mi è piaciuto molto lavorare a “Budino”.

Penso che Tina sia stato il primo personaggio che abbia mai scritto per il quale ho sentito un affetto genuino. Non penso che sia eccezionale, o diversa da qualunque altro personaggio di ogni altra storia, né credo che la sua vicenda abbia un qualcosa di diverso dalle altre. Ma ho sentito una sorta di connessione personale mentre la scrivevo.

A cosa stai lavorando ora? Possiamo aspettarci un’altra raccolta di “storie vere e tristi” o pensi di spostare la tua attenzione verso qualcosa di meno basato sulla realtà (o magari di super felice)?

Stiamo editando il mio prossimo libro, che uscirà in inglese la primavera prossima per Drawn & Quarterly. Si intitola Sabrina ed è un lungo lavoro di fiction, c’è già qualche informazione che circola online. Mentre stavamo editando e mettendo assieme gli ultimi pezzi del libro ho dipinto sul vetro. Sai, dipingere al contrario sulle finestre, a dentro. È una cosa molto divertente, almeno mentre cerco di capire cosa farò dopo.

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