Da Zeno Porno a Palla: un’intervista a Paolo Bacilieri

Abbiamo intervistato Paolo Bacilieri, autore poliedrico che ha spaziato e spazia dal graphic novel al fumetto popolare al racconto underground, per parlare del suo lavoro, di narrazione e di come il mondo del fumetto è cambiato nel corso degli anni.

Prendiamo per esempio Zeno Porno, Fun e Palla, che sono tre fumetti completamente diversi, nati e distribuiti in modi diversi, che si riferiscono quindi a pubblici diversi. Dal punto di vista dell’autore, la differenza di pubblico determina una differenza di approccio alla scrittura?

Innanzitutto una premessa: gli esempi che hai citato sono lavori che ho fatto nell’arco di diversi anni, in diversi stadi della mia vita e della mia carriera. Quindi non possono essere uguali. Un artista, un essere umano, cambia continuamente e questo si riflette nel lavoro che fa.
Comunque non è solo la tua consapevolezza nello scegliere un tipo di modulo editoriale, chiamiamolo così, a far sì che un tuo lavoro sia diverso da un altro. È anche quel modulo che influisce sul tuo lavoro, cambiandolo. Voglio dire: alla fine una storia che fai per la Bonelli sarà diversa non solo perché ti “adegui” a quel tipo di narrazione, ma saranno anche proprio quegli hardware narrativi ed editoriali, quel tipo di carta e di stampa, ad influire sul tuo lavoro e dargli una forma narrativa ed estetica.

Quindi si può dire che ti è venuto naturale passare dalla struttura narrativa e dal lettering folle di Zeno Porno alla gabbia bonelliana di Napoleone?

Beh, credo che il grado di naturalezza sia piuttosto elevato anche in Napoleone. Ti racconto com’è andata. Era la fine degli anni Novanta quando ricevetti questa chiamata, del tutto inaspettata, da parte di Carlo Ambrosini, un autore storico della Bonelli, di quelli che leggevo da ragazzino. Mi chiedeva se mi andava di fare delle prove su Napoleone che era una serie che aveva messo in piedi poco tempo prima. Io nemmeno lo conoscevo allora, Napoleone, sono andato a vedermelo dopo aver ricevuto questa telefonata.
Ho fatto queste prove e sono andate bene, incredibilmente, così mi sono messo a lavorare sulla mia prima storia di Napoleone con Ambrosini. L’ultima cosa che stavo facendo in quel periodo erano storie di Zeno Porno.
Poi ci son stati anche degli attriti, ci sono stati momenti in cui credo che una buona parte dei lettori Bonelli mi avrebbe volentieri impiccato, ma uno dei motivi per cui questo passaggio, da Zeno Porno a Napoleone, ha funzionato è che credo di avere una parte di dna bonelliano. Nel mio dna di lettore di fumetti prima ancora che di autore. E se hai quel dna lì, assorbito in giovane età quando imparavi a leggere, non te ne accorgi nemmeno ma fai delle scelte che rientrano in quel canone – anche se per il lettore abituato solo a quel tipo di narrazione possono sembrare estreme.
Poi c’è un altro motivo, se vuoi esistenziale. Questa cosa è successa in un momento della mia vita in cui ero abbastanza vecchio da avere un’esperienza, un percorso personale alle spalle, ma abbastanza giovane da essere un entusiasta a fondo perduto. E ancora adesso quando faccio i fumetti Bonelli ho quell’entusiasmo adolescenziale, una sorta di fede assoluta nel medium fumetto: il divertimento di raccontare una storia anche quando è semplice, elementare, tolti tutti i fronzoli e tolte tutte le sovrastrutture che ci vuoi mettere.
Per cui se tu mi dicessi, ora, che devo scegliere tra i miei lavori personali oppure i lavori che faccio per la Bonelli, o l’uno o l’altro, non ti direi che lascerei la Bonelli. E non sto parlando di soldi, che è un altro discorso ancora.

Un discorso particolarmente spinoso, soprattutto ora.

È un tema spinoso per tutti. Bonelli mi ha permesso di guadagnarmi da vivere, mentre facevo i miei fumetti. È stato un modo di acquistare sicurezza, dal punto di vista sia economico che professionale, artistico. E appunto mi ha permesso di fare i miei fumetti facendo altri fumetti, una sorta di autofinanziamento, e lo fa tuttora.

Parlando di Fun. I due volumi Fun e More Fun per certi versi li si può considerare a pieno titolo come graphic novel, tra l’altro con quel piglio da “fumetto di realtà” che adesso va per la maggiore. Ma poi a pensarci la struttura è molto complicata: c’è una componente saggistica, di ricostruzione storica; poi c’è una parte più narrativa; e in mezzo ci sono tutti i vari racconti a colori, che venivano da Animals, che sono perfettamente integrati nella narrazione. Com’è stato costruire e intrecciare quello che poi è diventato Fun?

È curioso come nascono i libri. La forma che prendono è veramente… si direbbe che nascano e la volontà dell’autore abbia un’incidenza abbastanza marginale nella forma finale. Le cose sono andate in questo modo. Il punto di partenza risale al 2012, avevo pubblicato Sweet Salgari e ne era uscita una recensione molto bella su Repubblica firmata da Stefano Bartezzaghi.
Stefano Bartezzaghi, altra coincidenza, l’avevo conosciuto poche settimane prima scoprendo che abitava a cento metri da casa mia: eravamo vicini di casa da anni e non ci eravamo mai incrociati. Fatto sta che ci siamo trovati perché volevo fargli i complimenti per l’articolo, ringraziarlo, uno dei famigerati apertivi milanesi, in un giorno feriale qualsiasi. Al momento di salutarci Stefano mi ha buttato lì “Perché non fai un graphic novel”, credo che lui abbia usato proprio questo termine, “sulle parole crociate? Sulla storia dei cruciverba”. Io sono, come si suol dire, caduto dal pero. Non avevo mai neanche lontanamente pensato a una cosa del genere e l’ho liquidata come un’idea carina come altre diecimila che ti propongono.
Ho cambiato idea quando ho letto il libro di Stefano L’orizzonte verticale, un bellissimo libro che è la storia del cruciverba. Lì mi son detto che c’era un sacco di materiale veramente interessante.
Poco tempo dopo mi sono complicato la vita ulteriormente perché ho voluto sovrapporre all’idea delle parole crociate una raccolta di racconti brevi, altro progetto che avevo in mente. E sovrapponendo queste due idee di libro totalmente diverse, che non avevano un cazzo di niente a che fare tra loro, ho pensato che era quella la grande idea: non era solo la storia del cruciverba, ma una sorta di griglia di racconti brevi all’interno di questa storia del cruciverba.
Ho cercato di dare una forte caratterizzazione grafica alle varie sezioni. Quindi le parti storiche hanno una gabbia senza spazio tra le vignette, con un bianco e nero netto. Le storie brevi sono a colori, almeno monocolori, e le ho prese a martellate per incastrarle dal punto di vista emotivo dentro questa struttura.
L’ho trovata una scelta giusta per il mio libro. Mi rendo conto che può essere fuorviante, anzi credo che molti lettori si trovino spaesati saltando da un elemento all’altro del libro. Anche io non sono abituato a fare libri così complicati, mi piace la semplicità, mi piace fare le cose semplici. Qui però mi è sembrato giusto cercare di cogliere l’occasione per raccontare una storia del cruciverba a fumetti cercando di dare un’idea delle connessioni che ci sono tra questi due linguaggi, cercando di scaldare in entrambi i casi questa fredda griglia… Il motivo per cui ho messo dentro queste storie è questo.

Invece la scelta di farlo in due volumi com’è nata?

A un certo punto della lavorazione, più o meno avevo superato la metà del primo volume, mi son reso conto che non sarei mai riuscito a stare dentro le 200 pagine che avevo previsto in partenza, neanche con la più severa delle politiche di taglio del “superfluo”. Allora a quel punto mi sono rivolto al mio allora editor e editore, che era Igort, e gli ho detto che avevamo due scelte: rimandare l’uscita del libro a quando l’avrei finito oppure dividerlo in due volumi.
La scelta iniziale è stata di aspettare e fare un volume unico. Poi però Igort ha cambiato idea, questa di saper cambiare idea è una grande e denigrata virtù, “Facciamo Fun e poi More Fun!” disse. Questa è stata la logicissima decisione del mio editore.
Gli devo della gratitudine, perché questo dittico che ne è venuto fuori non avrebbe questa forma se fosse stato un volume unico. Non avrebbe avuto quella sorta di closure a metà, con quella ripresa poi all’inizio del secondo volume, non avrebbe avuto anche quella continua simmetria e asimmetria che c’è tra il primo e il secondo volume. Per esempio entrambi finiscono in un cimitero; entrambi hanno la medesima struttura di parte storica, racconti brevi e questa parte della Milano contemporanea che tiene insieme tutto; c’è all’inizio una sorta di prologo che è esattamente il contrario di quello che succede alla fine del libro, come un versetto recitato al contrario. Se fosse stato un libro unico sarebbe stata una cosa diversa. Magri più bella, magari meno bella, però diversa.

Parliamo dal personaggio di Zeno che nasce in un contesto, anche editoriale, completamente diverso da quello di oggi ma si fa strada fino a qui, come una specie di filo conduttore. È solo un easter egg per il lettore appassionato o una scelta di continuity, per usare un termine supereroistico?

Zeno Porno era nato negli anni Novanta con delle esigenze assolutamente specifiche, e imbarazzanti: era nato su una rivista di fumetti erotici, Blue, da lì il cognome imbarazzante che continua a portarsi dietro, poveraccio.
Credo che il motivo per cui lo uso spesso sia utilitaristico: mi viene facile. Lo so che è una spiegazione banale, però è come un regista che usa per più film lo stesso attore. È un attore magari non bellissimo ma duttile, bravo e volenteroso, che non fa storie. Viene bene in contesti e situazioni diverse, e a distanza di molto tempo. Credo di usarlo con una certa consapevolezza, solo quando mi sembra che sia il caso. In Fun l’ho utilizzato proprio per la sua capacità di tenere insieme cose diverse. Credo che Zeno abbia un superpotere che è quello della collosità. Non so se esistano supereroi collosi, lui è un supereroe-colla che sa tenere insieme le cose più diverse.
E in Fun mi serviva proprio per tenere assieme la parte storica del libro con quella fatta di storielle “orizzontali e verticali” che vagano qua e là. Visto che il compito in questo caso era abbastanza pesante gli ho messo accanto un ulteriore personaggio, Pippo Quester, che lo aiuta in questo lavoro continuo di passare dal presente al passato.

In Palla invece Zeno non c’è.

Ci sono appunto dei casi in cui Zeno è superfluo, Palla è uno di questi.
Palla è una storia nata per questo piccolissimo editore underground che da anni voleva fare questa storia con me. Colpa di Ratigher, che ci ha presentati. Ho quindi tirato fuori questo soggetto che risale effettivamente a un sacco di anni fa, una ventina almeno. Un’idea vaghissima di questo tizio che si portava a casa una palla, un essere vivente, di carne.
La cosa determinante, in Palla, e stata accostare questa parte di pseudo-fantascienza, diciamo, in cui il protagonista Fabrizio trova questa creatura sferica, a una sezione ambientata duemila anni prima nella parte finale dei Vangeli con la resurrezione di Gesù Cristo.
Mi affascina molto l’idea di accostare due elementi narrativi apparentemente contrastanti, estranei, ignoti l’uno all’altro, e vedere cosa succede: una terza cosa, la reazione che ne esce fuori, anche senza una ragione formale forte. O meglio, la ragione la scopro anch’io, dopo, assieme ai lettori che mi leggono. È una cosa molto poco razionale, istintiva, che comincia a funzionare o non funzionare quando la metti su carta.

I tuoi primi lavori sono usciti sulle riviste, che oggi praticamente non esistono più, poi c’è un grosso blocco di opere con Black Velvet e con Kappa Edizioni, entrambi editori che non esistono più nemmeno loro. Poi c’è stata Coconino, e l’anno scorso Hollow Press. E in mezzo Bonelli. Insomma, hai visto un bel po’ di cambiamenti.
Come percepisci, anche da un punto di vista emotivo, il cambiamento del mondo del fumetto?

Identifico gli anni Novanta come una sorta di spartiacque, di deserto totale. Alla fine degli anni Ottanta pubblicavo un personaggio, Barokko, su À Suivre, la più bella rivista di fumetti che c’era in Francia, dell’editore Casterman. Dopo una partenza così privilegiata, negli anni Novanta le riviste erano morte tutte ed ero praticamente disoccupato. Quello è stato probabilmente il momento più difficile e più duro, non solo per me ma per molti autori della mia generazione, più giovani di me e anche e soprattutto più vecchi di me, che hanno visto un mondo morire. Non è che ne è rinato subito un altro. C’è stato davvero deserto e basta, per anni.
Adesso credo sia un periodo molto diverso. La metto di solito in questi termini paradossali. Per i fumetti è un periodo industrialmente di declino e artisticamente di pieno sviluppo: bello, vario, sempre pieno di sorprese. Ci sono un sacco di editori, piccoli e medi, che fanno dei bei libri e che lavorano bene. Guardavo poco fa lo stand di Eris Edizioni, “giovane” casa editrice torinese. Con loro non ho mai lavorato, non sto parlando in termini di promozione personale, ma, perbacco, fanno veramente un lavoro egregio.
E, come loro, altri piccoli e medi editori stanno pubblicando libri molto belli, mica solo in Italia! Si fa veramente fatica a star dietro a tutta la roba bella che esce. Io per lo meno faccio fatica.
Probabilmente finiremo come in quel libro di Dick dove i fumetti sono… c’è una bambina geniale che viene carcerata e che legge ponderosissimi testi universitari a fumetti. Credo sia in Ubik. Probabilmente finiremo così. Che non è male, no?

2017-05-23T11:21:02+00:0023 / 05 / 17|Interviste, Numero 1: L'età dell'oro|0 Comments

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