Un mondo come il nostro. Inchiostrazione a parte

di Matteo Gaspari

Facciamo un gioco di supereroistica ispirazione, vi va? Immaginiamo di costruire un mondo abitato da tutti i personaggi di tutti i fumetti di tutto il mondo. Un po’ come nelle storie Marvel con Thor, Capitan America e compagnia che calcano tutti lo stesso suolo, solo più in grande.

In questo universo fittizio possiamo passeggiare tranquilli per le vie del centro. Alzando lo sguardo vediamo Superman svolazzare e l’Uomo Ragno dondolare stiloso tra i grattacieli. In lontananza Mazinga difende Tokyo mentre la Corazzata Spaziale Yamato sta per mollare gli ormeggi. Rick Grimes e Hideo Suzuki ci proteggono dagli zombie (e dai pazzi psicopatici) mentre Paul Grappe gironzola verso il parco con uno splendido vestito rosso. Possiamo andare al bar a prenderci un caffè con Chester Brown per chiacchierare di Bibbia, pornografia e prostituzione oppure fumarci una sigaretta in compagnia del buon Corto. Sempre che nel frattempo il Codacons non l’abbia messo agli arresti, ma questa è un’altra storia.

Che bell’universo sarebbe: variopinto, entusiasmante, zeppo di mirabolanti avventure pronte a dispiegarsi davanti ai nostri occhi.

Ora seconda parte del gioco. Da questo buffo miscuglio pieno di vite disegnate togliamo tutte le cose folli, incredibili, fantastiche. Quindi via i supereroi, via gli zombie e i draghi e i nerboruti con l’ascia e pure quelli con l’arco. Via le moto a propulsione sessuale, i ladri gentiluomini, le astronavi e i robottoni. Via tutto. Cosa ci rimane?

Beh, una volta tolto lo straordinario, il fantastico e il metaforico, ci rimane “solo” l’ordinario: un mondo molto simile al nostro popolato da gente normale, inchiostrazione a parte. Un mondo con città, villaggi e quartieri che assomigliano ai nostri e che, anzi, sono proprio i nostri, ricostruiti al meglio per precisi scopi narrativi. Dall’infanzia alla vecchiaia, come nella nostra Terra anche qui c’è tutto quel che serve per farsi una buona panoramica della vita umana.

In un piccolo quartiere residenziale una bambina scarabattola allegra con un mazzo di girasoli in mano. Poco più in là, al fiume, un padre di famiglia cerca di vendere le sue pietre; dei giovani danno fuoco a una baracca, forse dentro c’è qualcuno, nel cielo brilla la cometa. Nel frattempo Alice, Charlotte e Renaud si innamorano e a Tokyo dei millennials cercano il loro posto in un mondo che non sembra fatto per loro. Altrove, fuori da uno stadio, una donna vede la vita crollarle addosso quando il suo compagno viene arrestato. Nei sobborghi una madre è entusiasta di essere entrata nel gruppo di controllo della sua soap opera preferita. Intanto, in una casa di riposo fuori città, dei vecchietti tentano la fuga in automobile. Il guidatore ha l’Alzheimer.

Il confine che separa il nostro mondo da quello di questi personaggi è sottile, quasi inesistente. E forse è per questo motivo che è così semplice attraversarlo, passare con continuità quasi senza accorgersene da una parte all’altra, dalla realtà alla finzione, per scoprire qualcosa di noi e del nostro mondo. Gli autori più diversi, chi programmaticamente chi solo di passaggio, e ognuno con la propria sensibilità, sono i demiurghi di un universo creato retroingegnerizzando la realtà per poterla sublimare e rappresentare così com’è. È un po’ il contrario di quando ci viene chiesto come stiamo e noi rispondiamo mesti “a pezzi, come se mi fosse passato sopra un treno”. Non siamo davvero smontati, nessuna locomotiva ci ha investito. Ecco, questi autori, nelle loro opere, rispondono alla domanda direttamente, saltando a piedi pari il “come se”.

Lasciando cadere il velo d’allegoria della narrazione di genere ognuno di loro contribuisce a definire un insieme di poetiche della normalità che descrivono un sistema di coordinate per la nostra esistenza.

Ma esiste davvero una metrica per la nostra esistenza? Nostra di chi? Noi chi? Perché la normalità è soggettiva e tale rimane, confinata dentro limiti geografici, anagrafici, di esperienza e sensibilità. La teoria dei sei gradi ci mostra quanto sia facile, anche muovendosi a piccoli passi di affinità, arrivare dall’altra parte del mondo, a persone che con noi condividono poco o nulla. Tuttavia ci si può comunque rispecchiare nella malinconia e nella futilità di Tsuge, anche se le sue opere vengono da un altro continente e da mezzo secolo fa; possiamo ritrovarci in Paolo Cattaneo anche se non siamo più adolescenti, o se lo siamo ma vent’anni dopo l’ambientazione delle sue storie.

Magari alcuni autori riescono a cristallizzare dei concetti, delle emozioni apparentemente sfuggenti, e hanno la capacità di renderli universali. O magari le vite di ognuno di noi sono più simili di quanto pensiamo e ci piaccia ammettere. Probabilmente una combinazione delle due, ma il risultato non cambia: esiste forse una trasversalità in queste poetiche della normalità; trasversalità che è tanto più sorprendente quanto più si rinuncia ad allegorie che sgancino la storia da una precisa caratterizzazione spaziale e temporale.

In tutto ciò il fumetto sembra essere il linguaggio d’elezione per questo tipo di narrazione. Senza la necessità di giustificare lo spazio per la riflessione, e senza dover ricorrere a particolari artifici per mantenere fluida la fruizione anche quando lo scorrere degli eventi pare congelarsi, la letteratura disegnata è capace di raccontare l’ordinario e il suo incedere lento e introspettivo in maniera particolarmente genuina.
Se già lo scorrere del tempo è demandato al lettore, in un patto sottinteso che fa dialogare la struttura delle pagine con i modi della fruizione personale, nel fumetto il rapporto tra parola e immagine permette un ulteriore livello di manipolazione. Vignette giustapposte possono rappresentare lo scorrere dei giorni come dei secondi, indugiando quanto serve per enfatizzare un gesto o un’espressione o procedendo verso il futuro a passo spedito. Al contempo lo spazio delle didascalie diviene un territorio virtualmente sconfinato dove narratori e protagonisti possono perdersi in riflessioni ed emozioni nascoste. Il passo non è necessariamente dettato dall’incedere dell’azione, che a sua volta non deve attendere paziente il dispiegarsi di lenti flussi di coscienza. Sono due tracce quasi parallele, che si intrecciano e si sovrappongono rimanendo slegate dal vincolo della sincronicità o della sequenzialità.

Non c’è corrispondenza temporale tra azione e introspezione, e non ce n’è bisogno: il linguaggio fumetto permette questo scollamento naturale e dà i giusti spazi ad una narrazione dell’ordinario centrata più sul come che sul cosa, interessata alle emozioni e ai loro riverberi dall’interno all’esterno e viceversa, riconoscendo che il dentro e il fuori viaggiano non sempre assieme.

E così non sono le regole arbitrarie con cui abbiamo prima costruito e poi parzialmente svuotato un mondo immaginario a tenere insieme questo fritto misto di autori, tematiche e stili. È il modo in cui quel mondo dialoga con il nostro senza artifici, essendone al contempo sublimazione e rappresentazione. È l’immedesimazione che scaturisce naturalmente da questo dialogo e la successiva impressione che ognuna di quelle storie parli un po’ di noi, in una lingua capace senza sforzo di dar risalto e spazio alle cose giuste.

Così assieme ai personaggi di Paolo Cattaneo possiamo ritrovare la cardinale importanza delle piccole cose tipica dell’adolescenza. Nel triste ottimismo di Daniel Clowes possiamo rivivere il senso di inadeguatezza provato ad un primo appuntamento. Ci rispecchiamo nell’inettitudine dell’uomo senza talento di Tsuge, condividiamo con i protagonisti di Solanin il desiderio di trovare il nostro posto nel mondo. Sorridiamo di fronte al goffo innamoramento dei fumetti di Bastien Vivès ricordando di essere stati anche noi così e, nelle giornate più cupe, i protagonisti di Beverly ci rassicurano che l’ineluttabile vuotezza della vita è un sentimento universale.

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