Rimanere immobili: un ritratto di Adrian Tomine

di Elisabetta Mongardi

È l’estate di qualche anno fa, da poco ho iniziato a uscire con uno. Un giorno mi dice “ti ho portato un fumetto che secondo me ti piace”. È Summer Blonde, nell’edizione originale Drawn & Quarterly. Io l’ho già letto, ma faccio finta di no. Ormai che ci sono, lo rileggo tutto in un pomeriggio. Fa caldo, mi si appiccicano le gambe al divano di pelle. Nella storia che apre la raccolta, Alter Ego, c’è uno scrittore ventiseienne in crisi: la critica ha aspettative molto alte per il suo secondo romanzo, e questo lo blocca. Per tutta la storia non fa altro che questo: restare paralizzato. La sua immobilità, però, muove le cose intorno a lui: la fidanzata va in crisi e lo lascia; una studentessa del liceo si innamora di lui; i suoi amici crescono e si allontanano.

Shortcomings, il libro che segue Summer Blonde (pubblicato in Italia da BUR col titolo, fin troppo indulgente, Una lieve imperfezione), funziona più o meno allo stesso modo: mentre il protagonista, Ben Tanaka, si guarda ostinato l’ombelico, gli altri personaggi vanno avanti. Nello specifico: mentre Ben passa gran parte del libro a discutere in tono saccente della limitatezza degli stereotipi razziali femminili, la sua ragazza lo lascia, si trasferisce dalla parte opposta degli Stati Uniti, cambia lavoro, va a convivere con un altro uomo. Lui se ne accorge con quaranta pagine di ritardo, e alla fine si incazza pure. L’ultimo dialogo tra Ben e la sua (ormai ex) fidanzata è illuminante: è chiaro che è lei ad avere ragione, e allo stesso tempo è impossibile non fare il tifo per lui. In fondo, finora abbiamo visto il mondo coi suoi occhi, ed era un mondo a sua immagine e somiglianza.

Tutti i dialoghi di Shortcomings, in realtà, sono fenomenali. Hanno esattamente il ritmo giusto e sono fin troppo credibili. Di sicuro, faranno sorridere chi ha passato almeno una serata al tavolo di un bar a sentir pronunciare frasi come “Is your attraction to white women a sublimated form of assimilation?” [“La tua attrazione per le donne bianche è una forma sublimata di assimilazione?”].

È lo sfasamento tra la consapevolezza che personaggi come questi sono – è innegabile – patetici, e la simpatia ineluttabile che provo per loro, il motivo per cui Tomine è uno dei miei preferiti (e dunque non ne so dire). Una specie di misto di empatia e vergogna: anch’io ho passato più di una serata al tavolo di un bar a discutere in tono saccente dei massimi sistemi, senza le conoscenze necessarie per farlo con cognizione di causa. A ripensarci mi viene da nascondere la testa tra le mani; a vedermi disegnata riesco a volermi un po’ bene.

A un certo punto, in Alter Ego, il migliore amico del protagonista dice una cosa interessante: “You know, sometimes I can’t tell if you’re whining or bragging” [“Lo sai, certe volte non riesco a capire se ti stai lamentando o ti stai vantando”].

È un’opposizione che calza bene con le storie di Tomine: sembrano fatte per renderci malinconici (tristi, a esagerare) ma sono così pulite, essenziali, attraenti che finiscono per diventare disarmanti. Il disegno di Tomine, come la sua prosa, è perfetto: nessuna sbavatura, nessun eccesso. Non disturba. La costruzione delle tavole, la disposizione delle vignette – non c’è mai nulla fuori posto. La pagina è una superficie liscia che riflette e basta, come uno specchio, senza giudizio.

Intanto gli anni passano, io cambio, la mia percezione di queste storie cambia. La prima volta che ho letto Summer Blonde, su quel divano di pelle, il protagonista di Alter Ego mi è sembrato tragicamente incompreso. Avevo poco più di vent’anni, ero innamorata, ero convinta. Quando l’ho riletto per scrivere questo pezzo, rientrata dall’ufficio, sul divano che ho comprato per rimpiazzare quello di pelle (che, diciamolo, faceva schifo), l’ho trovato immaturo e presuntuoso. Ho poco meno di trent’anni, con la persona che me lo aveva prestato la prima volta non ci sentiamo da un pezzo, e coltivo una certa diffidenza verso il sentirsi innamorati o convinti. Quando lo rileggerò tra otto anni, come succede coi libri davvero belli, ci troverò ancora me stessa, chiunque sarò diventata.

È successo così con Morire in piedi (Rizzoli, 2016). Per la prima volta anche Tomine mi è sembrato –  vivaddio – invecchiato. E con lui i suoi personaggi: genitori, famiglie, artisti da due soldi che hanno rinunciato alle loro velleità per trovarsi un lavoro vero. C’è più stanchezza, più consapevolezza. E c’è il colore che sembra far respirare le pagine, allargare la prospettiva.

Nella mia storia preferita, che dà il titolo alla raccolta, una ragazzina balbuziente vuole diventare una stand up comedian. È chiaro da subito che non ce la farà mai, ma il padre, un po’ impacciato un po’ accecato dall’affetto, la sostiene quando decide di partecipare a una serata open mic. Non è tanto diverso dalle storie che ho citato finora, eppure sembra tutto nuovo: c’è dolcezza, stavolta, c’è uno sguardo che ha una consistenza differente.

Mentre si svolge questo dramma minuscolo, una vignetta dopo l’altra (tutte uguali, incastrate in una griglia impietosa) la madre della protagonista comincia a perdere i capelli, e a un certo punto scompare. Scompare e basta. Senza parole. Sembra una sciocchezza, ma è una prova di scrittura esemplare, devastante.

E speculare a Tradotto dal giapponese, in cui il monologo di una madre single alla figlia persa di vista anni prima scorre sopra i dettagli in soggettiva del suo viaggio: il banco del check-in, il tavolino di plastica dell’aereo, il profilo di una città di notte. Sempre la stessa storia: è impossibile guardare davvero al di fuori di sé. A forza di ripeterla, però, qualcosa si rompe, e tutta questa autoreferenzialità cola giù dalle pagine, si sparge dappertutto, diventa il suo contrario.

Avrei dovuto parlare di Tomine, avrei dovuto scrivere della poetica del quotidiano, avrei dovuto scrivere di fumetto. Invece ho scritto soprattutto di me. Me ne scuso con chi è arrivato fin qua e con Banana Oil che mi ha detto “fai un pezzo intimista”. È proprio la fatica che faccio anch’io a staccarmi dal mio ombelico, è la presunzione che qualcuno, là fuori, avrà voglia di leggere dei miei divani e dei miei vent’anni, che mi fa simpatici Tomine e i suoi ometti goffi.

Bibliografia essenziale di Adrian Tomine

Summer Blonde
2003, Coconino Press

Una lieve imperfezione
2008, Biblioteca Universale Rizzoli

Morire in piedi
2016, Rizzoli Lizard

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