Un teatro della crudeltà: un ritratto di Yoshihiro Tatsumi

di Juan Scassa

Il termine gekiga lo scoprii nel periodo universitario, verso il 2007, facendo ricerche sul manga per un articolo sui nuovi percorsi del fumetto fantascientifico. Nelle ricerche bisogna partire dalle origini: scoprii che perfino Astroboy aveva un padrino (Speed Tarō di Shishido Sakō, pubblicato tra il 1930 e 1934) e che Marte venne conquistata sulla carta nel 1940 in Kasei tanken (Viaggio verso Marte, di Tarō Asahi e Noboru Ōshiro). In tutta la serie di documenti e articoli che analizzavo per ripercorrere la storia del manga, ad un certo punto arrivava questo termine, gekiga. Un neologismo formato da “geki” (che mi raccomando, si pronuncia gheki), drammatico, e “ga”, immagine, da contrapporre a manga, dove “man” significa disimpegnato, comico, vago. La scoperta del gekiga fu per me una folgorazione sulla strada di Damasco. L’esistenza di un fumetto adulto e drammatico di per sé, decenni prima della rivoluzione di A Contract With God di Will Eisner, non mi stupì in realtà più di tanto: se è sbagliato far risalire la storia del manga agli emaki del VII secolo, bisogna considerare che la tradizione della narrazione per immagini è una costante ininterrotta di tutti i periodi della storia giapponese. Fu la fascinazione per le storie senza compromessi, le tinte dannate, i racconti di un’umanità selvaggia, a risucchiare letteralmente il mio cervello.

Come il critico americano Ryan Holmberg, in un primo momento trascurai l’opera di Tatsumi per dedicarmi agli irregolari di Garo, Tsuge Yoshiharu su tutti. A costringermi alla lettura di Tatsumi fu Una vita tra i margini, librone autobiografico in cui racconta la nascita del gekiga. Ora quel libro è diventato una sorta di Bibbia che tengo vicino al cuscino, e mi commuovo sempre quando racconta l’incontro con Tsuge o le sbronze con Matsumoto e Saitō. Ma ancora più significative sono le raccolte Coconino Crocevia, Le Lacrime della Bestia e Inferno. La maggior parte dei racconti di queste splendide pubblicazioni è dei primi anni ’70, quando la bomba gekiga era ormai scoppiata. Sono racconti del proletariato urbano, di derelitti umani, di prostitute e inetti; vengono mostrate le pulsioni sessuali più squallide, bestiali, necrofile; l’insoddisfazione della vita famigliare, lavorativa, l’assoluta assenza di speranza per una gioventù cresciuta tra le macerie, un mondo in cui la gente, concentrata come bestiame nello stesso luogo, ha perso il senso di umanità.

Questi racconti degli anni ’70 hanno un carattere molto più negativo rispetto al primo periodo dei kashihon (libri a noleggio molto diffusi nel dopoguerra giapponese in quanto forma di svago economica) in cui i temi erano spesso noir e investigativi: il mercato dei kashihon stava ora scomparendo e ormai le riviste Kage e Machi erano finite da un pezzo, i trattati di sicurezza con gli Stati Uniti venivano firmati e le città erano piene di una gioventù privata di ideali. Non bisogna dimenticare che dagli anni ’50 ai ’70 la popolazione giapponese crebbe di un milione di abitanti per anno, creando un’immensa migrazione dai territori rurali verso le città. Tokyo e Osaka erano piene di giovani che come cani randagi vagavano senza futuro in città sempre più popolate e inquinate, incapaci di mantenere le promesse verso la gioventù compatita da Tatsumi.

Di questi cupi racconti dei primi anni Settanta non posso non citare Il cannone umano, nel quale un uomo prossimo alla pensione capisce quanto è disprezzato dalla propria famiglia e decide di vendicarsi spendendo i propri guadagni in prostitute e corse di cavalli. Il grande cannone commemorativo dei soldati morti in guerra è metafora della perduta virilità del protagonista: di fronte all’impotenza fisica e spirituale, al protagonista non rimane altro che urinare sul simbolo del passato imperialismo. Sia il cannone che l’uomo non sono altro che oggetti inutili derisi da tutti.
In Kokkokko (il titolo rappresenta il suono onomatopeico dei tacchi) Tatsumi ci racconta invece di un cittadino modello, feticista, che sogna la morte perfetta. Il realismo squallido con cui l’autore descrive la realtà è palese in molte vignette: il racconto inizia in una casa chiusa, ad esempio, dove una prostituta osserva divertita un preservativo usato. Tatsumi ci impone di sospendere il giudizio morale e ci permette di compatire i sentimenti dei suoi protagonisti. Tra i detriti è inutile nascondere la verità della natura umana.

Lo svelamento di una natura umana malvagia è chiaro anche in Inferno. Durante la visita di un ministro, nel venticinquesimo anniversario del bombardamento di Hiroshima, un reporter ricorda le vicende di uno scatto nella città atomizzata: una fotografia che riuscì a commuovere il mondo intero, quella dell’ombra su un muro di un figlio che massaggia la madre. Divenuta simbolo della lotta al nucleare, l’ombra immortalata in realtà è quella di un omicidio. Nessuno dei personaggi della vicenda è innocente, né l’ipocrisia delle commemorazioni ufficiali, né i giornalisti interessati solo al denaro, né il figlio immortalato, né tantomeno il protagonista che arriva ad uccidere per proteggere la sua reputazione. Tatsumi ci pare ammonire raccontando la verità più grande: l’inferno non è Hiroshima distrutta, è nell’oscurità umana. È facile commemorare le ingiustizie subite, molto più difficile è comprendere i propri crimini.

La sua critica sociale non è iscrivibile ad una (sterile) critica di partito. Il palesamento della realtà è artistico e quindi profondo, patetico, riflessivo, filosofico. Impone a noi lettori di confrontarci con la brutalità, farla nostra. Per certi versi la bestialità mostrata da Tatsumi non è molto diversa da quella rappresentata da Ciprì e Maresco nei loro cinici cortometraggi: si tratta sempre del patibolo della rappresentazione, un teatro della crudeltà dove si è perso il carattere magico e rimangono solo i simboli smembrati a monito della fine dell’umanità. Moniti più reali del vero, sepolti nell’ipocrisia della nostra morale, nel falsato giudizio del sé.

Il gekiga di Tatsumi non è solo un fumetto per adulti. È un confronto continuo, un rimuginare, un nodo che non si può risolvere, uno specchio degli inganni, il sonno da ubriachi. Prostitute lungo il fiume, soldati americani e ladri privi di scrupolo accompagnano i miei pensieri nelle strade di metropoli lontane dalla Osaka di Tatsumi. Cambiano i luoghi e le stagioni, ma l’essere umano fin quando tacerà a sé stesso il suo lato oscuro rimarrà solamente halber mensch, un mezzo-uomo, pronto a ripetere gli errori del passato per sempre.

Bibliografia essenziale di Yoshihiro Tatsumi

Una vita tra i margini
2012, Bao Publishing

Tormenta Nera
2013, Bao Publishing

Crocevia
2016, Coconino Press – Fandango

Le lacrime della bestia
2017, Coconino Press – Fandango

Inferno
2017, Coconino Press – Fandango