Banana Oil

di Elisabetta Mongardi

Benvenuti a Naftalina, la rubrica che parla solo di autori vecchissimi, così non si offende nessuno.

In questo episodio parliamo di Milt Gross, autore americano del primo Novecento e santo patrono di questa rivista. Nato nel 1895 nel Bronx, di origine ebrea, Gross è tra gli autori più amati, conosciuti e prolifici della sua epoca. Eppure oggi è quasi del tutto dimenticato, tanto che è difficilissimo recuperare le riedizioni dei suoi lavori (Fantagraphics ha ripubblicato nel 2006 He Done Her Wrong; una raccolta di strisce si trova su The Complete Milt Gross Comic Books and Life Story di Craig Yoe, uscita nel 2010 per IDW). Questo è un peccato, ed è anche uno dei motivi per cui lo abbiamo adottato come nume tutelare del nostro progetto, che porta il nome di una delle sue strisce più famose.

Di motivi ce ne sono altri.

Gross è un autore dal talento sorprendente, ma si comporta come uno che non ha la più pallida idea di cosa fare: si fa cacciare dal liceo e dalla scuola d’arte, cambia continuamente lavoro solo per il gusto di scoprire tutti i quartieri di New York, è sempre al verde. Dei suoi primi anni al New York American – è il 1912, Gross ha vent’anni e fa il “negro” per i colleghi – dice: “Ero un fannullone, un incosciente, un ragazzino saccente senza niente di buono in testa se non il luccichio debole e distante di un’idea, un sogno”.

Quando, nel 1917, lascia la redazione del New York American, Gross si butta nell’animazione ai Bray Studios, ai quali torna dopo una parentesi nell’esercito durante la Prima Guerra Mondiale, per poi passare alla MGM. Lavorerà anche nel cinema, nella radio e nel teatro: collabora con Charlie Chaplin alla produzione di The Circus (di tutte le gag che scrive per il film, però, solo una sopravvive alla pignoleria di Chaplin: ha a che con fare un trapezio, una scimmia e una buccia di banana); è scrittore, pubblicitario, pittore, scenografo, sceneggiatore (una delle sue strisce, That’s My Pop!, diventa un programma radio) . Non ha mai creato un solo personaggio o una serie rimasti nella storia, ma un universo intero di creature improbabili: casalinghe pettegole del Lower East Side, un conte pazzo in fuga da un manicomio (dove però rientra sempre, perché lo trova più sicuro del mondo reale), un cane che si crede Napoleone, fannulloni, truffatori, buffoni di ogni genere.

Alla sua arte ci crede davvero (forse troppo). Nel 1919, poco dopo il suo matrimonio, Gross è disperato: senza lavoro, con un figlio ammalato e una famiglia da mantenere, non sa più dove sbattere la testa. Un pomeriggio, mentre è seduto su una panchina al City Hall Park, gli viene in mente di telefonare a Ralph Pulitzer e chiedergli di essere assunto al suo New York World, promettendogli la striscia a fumetti migliore del mondo. È così che nasce (tra le altre strips) Banana Oil: un ciclo di storie di una pagina che mettono in scena piccole incomprensioni quotidiane e che finiscono tutte con uno dei protagonisti che grida, appunto, “Banana oil!” per accusare qualcuno di un inganno o di aver detto una cazzata. Un non sequitur che è entrato addirittura nel dizionario, con la definizione di “esagerazione senza senso”.

Gross è un artista delle parole. I suoi personaggi parlano una lingua a metà tra l’inglese e lo yiddish, una specie di traduzione letterale del dialetto degli ebrei americani di origine russa. Molte delle frasi ricorrenti dei suoi personaggi diventano espressioni popolari (oggi anche loro, ahimé, dimenticate): “Is diss a system?”, “Dun’t esk” e, naturalmente, “Banana oil”. Una caratteristica, questa, che ha reso famosa la rubrica Gross Exaggerations, che ha poi aperto la strada ad altre serie dai titoli che è un piacere pronunciare ad alta voce: Nize Baby, I Shoulda Ate the Eclair, Count Screwloose of Tooloose, Otto and Blotto, Dave’s Delicatessen…

Fa ridere. Con la pancia. Tutto, nei suoi fumetti, è intriso di un umorismo naturale: il tratto, le storie, il linguaggio. I suoi personaggi sono buffi in modo quasi inevitabile, animati da un movimento che, semplicemente, è una gioia per gli occhi.
Il suo capolavoro del 1930, He Done Her Wrong, graphic novel prima del graphic novel e parodia affettuosa dei woodcut novels di Lynd Ward e dei film di Hollywood (dentro c’è tutto: un eroe impavido, un cattivo, un’eroina da salvare, inseguimenti, omicidi, drammi), è un volume muto di oltre 250 pagine in cui esplode tutta l’abilità di Gross nella composizione: pagine semivuote alternate a pagine in cui succede di tutto; un tratto che è energia pura, da seguire con gli occhi prima che si trasformi in qualcos’altro.
E un uso sorprendente (per l’epoca) della forma lunga come strumento per espandere la comicità: in una sequenza che occupa 27 pagine la protagonista, abbandonata dal suo eroe, cerca di ottenere un lavoro in un grande magazzino raccontando a un commesso la sua storia patetica. Lui la spedisce dai suoi superiori, che a loro volta la spediscono dai loro superiori, e la scena si ripete identica per cinque volte. Alla fine, la protagonista riesce ad avere il lavoro: la vediamo in ginocchio mentre lucida il pavimento del primo piano del grande magazzino, da dove era partita.

Milt Gross è un generatore instancabile di meraviglia, e ha descritto Banana Oil (quello vero) con parole che anche noi ci sentiamo di ripetere a gran voce una per una, con una mano sul cuore: “Banana Oil è la cosa più mia che ho fatto. Dentro c’è tutto quello che penso della vita e della follia di cui è pieno il mondo. Ci ho messo tutto il cuore, per quanto possa sembrare bizzarro”.

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