Per uno sguardo sul quotidiano

Prima parte

di Emilio Varrà e Edo Chieregato

foto di Emanuele Rosso

Emilio Varrà: La prima cosa che viene da pensare quando si parla di una poetica del quotidiano è che senza dubbio si è imposta nel fumetto contemporaneo (inteso come quello degli ultimi 25/30 anni) come una delle forme di narrazione privilegiate. Il binomio graphic novel e quotidiano è indubbiamente uno di quelli a cui si fa riferimento, con giustificazione, ed ormai è una vulgata critica quella di considerare l’evoluzione della storia del fumetto in parallelo con la letteratura: se le grandi narrazioni fino all’avvento della modernità avevano trovato nell’epica, nel racconto cavalleresco e nell’universo del meraviglioso la principale via per realizzarsi, con l’affermazione del romanzo nel Settecento (il novel appunto) si fa strada una nuova propensione al realismo. Il mito e tutte le sue derivazioni lasciano spazio al racconto della quotidianità, l’eroe scompare a favore di quello che progressivamente diventerà l’uomo senza qualità, in perenne squilibrio con la realtà sociale, sia essa quella privata delle relazioni o quella collettiva della Storia.

Un processo simile lo si è individuato anche nel fumetto che per decenni ha vissuto di icone, comiche o con superpoteri non importa, e via via a partire dagli anni Settanta e poi con più evidenza nella seconda metà degli anni Ottanta ha abbandonato la sua epica per “scendere” alla realtà di tutti i giorni e a personaggi privi di una qualche eccezionalità. Questo parallelo – tra fumetto e romanzo – è anche confermato dal fatto che la struttura narrativa del romanzo di formazione (tinto o meno di autobiografia) è stata la forma che più ampiamente ha fatto da traghettatrice in questo processo. Difficile smentire questa visione, che ha una sua fondatezza, pur non sminuita dalla possibilità di trovare eccezioni, anticipazioni, recuperi mitici.

Quello che però mi piacerebbe fare qui è cercare di trovare le crepe di questo discorso che rischia di diventare troppo cristallino nel suo essere canone. Non si tratta di amor di polemica, piuttosto di individuare interrogativi, dubbi utili a indicare strade per altre possibili letture. In quest’ottica mi viene da riflettere su cosa davvero possiamo identificare con “quotidiano”. Sembrerebbe che come prima cosa dovremmo eliminare tutte quelle narrazioni che fanno dell’eccezionalità degli accadimenti la loro ragion d’essere. E altrettanto naturalmente viene da escludere tutte quelle storie che hanno nel fantastico o nel meraviglioso una loro deriva. Ma è proprio vera quest’ultima affermazione? Non si potrebbe pensare a un fantasy quotidiano? Privo di avventure o viaggi, ma semplicemente concentrato a mostrare la vita di tutti i giorni di un personaggio o di una comunità? Come se Frodo non fosse mai partito dalla contea degli Hobbit. O, per fare esempi fumettisticamente più concreti, si può pensare a un fumetto più quotidiano di Krazy Kat? E le strisce dei Peanuts non traggono la loro forza proprio dal procedere inarrestabile dei giorni, delle festività, dei giorni di scuola? E allora mi chiedo: il quotidiano per come lo immaginiamo di primo acchito, un libro di Tomine ad esempio, è forse anche quello solo un approccio narrativo, con tempi, temi e stili di riferimento? In altre parole: è il quotidiano un genere, esattamente come la fantascienza o l’horror?

Edo Chieregato: Va capito cosa intendiamo per “quotidiano”, e cosa per “eccezionalità”. Credo che in ogni vita, sia essa di routine o più dinamica e avventurosa, ci siano entrambe le cose. E ancora che nel quotidiano ci sia lo straordinario e viceversa. Cosa allora rende quotidiano? Cosa invece “avventuroso”?

Se abbiamo voglia di sintonizzarci con un bambino, ad esempio, può capitare con una certa facilità di rimanere parecchio tempo a osservare un sasso. Se questo accade, una cosa molto comune come l’osservazione di un sasso può diventare, assieme a un bambino, straordinaria e avventurosa. Se invece immaginiamo un pilota d’aereo che tutte le settimane sorvola più di una volta l’oceano, e che magari ha abitualmente flirt avventurosi con hostess attraenti, potremo comunque non discostarci da una quotidianità. Nella vita di tutti i giorni è la nostra capacità di sorprenderci a deputare l’eccezionalità di quello che facciamo, nel racconto è invece il modo in cui raccontiamo a stupire o interessare.

Se il bambino apre l’occhio all’adulto, è il buon autore a risvegliare il lettore. Questo risveglio dello sguardo e del sentire è ben raccontato in almeno due romanzi: La passeggiata di Robert Walser, sorta di metafora dello scrittore, e L’ora del vero sentire di Peter Handke, dove in entrambi i casi ci troviamo di fronte a protagonisti che imparano a vedere di nuovo. In pratica azioni e cose molto piccole si dimostrano ben più eccezionali di quello che si crede, e un sentire diverso segue questo nuovo vedere. Ma quando parliamo di racconto, se introduciamo il quotidiano, credo che dobbiamo chiederci, come lettori, che cosa ci aspettiamo da una storia. Ci interessa la vita o l’evasione da essa?
Forse come dici, è proprio negli anni Settanta che il quotidiano entra in maniera massiccia nel racconto, se da una parte viene in mente Alack Sinner di Munoz & Sampayo che si sveglia stonato e piscia, dall’altra c’è Rüdiger Vogler ne Il corso del tempo di Wenders che defeca in diretta.  Anche le corporalità più basse entrano nel racconto, quasi a dire che così è più vero, come nella vita di tutti i giorni. Oppure, con meno apparente estremizzazione, ci sono registi che propongono opere che destabilizzano il genere di riferimento proprio attraverso la quotidianità. Penso ai western esistenzialisti e frugali di Monte Helmann, con un’epica all’osso, ai bizzarri film noir di Fassbinder oppure alla fantascienza sociale nei romanzi di Schekley dove è molto facile ritrovarsi.

Nel fumetto, “quotidianità” corrisponde spesso ad autobiografia e quindi, se vogliamo, alle origini di certo fumetto contemporaneo. Prima di Crumb ci sono i deliri visionari di Justin Green in Binky Brown meets the Holy Virgin Mary dove la quotidianità più viscerale, il fulcro del senso di colpa, genera forme e derive molto lontane dal “reale”, oppure ci sono i piccoli accadimenti e le paranoie da vero hipster di Harvey Pekar. Ma infatti! Cosa c’è di più avventuroso della giornata di un paranoico scrupoloso e depresso? Cosa c’è di più fantascientifico e orrorifico? Non so, forse più che di genere del quotidiano mi chiedo se non sia più opportuno parlare di “fumetto di realtà”. Oppure più che di un genere dovremmo parlare di un degenere?

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