Per uno sguardo sul quotidiano

Seconda parte

di Emilio Varrà e Edo Chieregato

foto di Emanuele Rosso

Emilio Varrà: Mi interessa molto quello che dici sullo sguardo: forse il quotidiano è davvero la storia di una riscoperta dello sguardo? Imparare a vedere di nuovo, dicevi. Un processo che magari può riguardare i personaggi del racconto (e vengono in mente anche a me diversi film di Wenders, a partire da Alice nelle città), a volte invece può essere un invito implicito al lettore o allo spettatore senza che i personaggi incarnino la scoperta di questa consapevolezza. In entrambi i casi comunque la normalità si trasfigura in meraviglia. Ecco, forse è quando sento che un autore riesce a farmi fare questo processo che una storia quotidiana mi interessa. Un fumetto di realtà, ma che la tasta ai confini, ne esplora i bordi, ne fa sentire una potenziale trasfigurazione.

E questa soglia secondo me è più facile raggiungerla quando si applicano determinate strategie narrative, che riguardano il tempo e l’oggetto del racconto. Da una parte ho in testa la centralità del dettaglio, la forza che si ha quando si riduce la visione ad una porzione minimale, appunto le piccole cose, al di là che la trama stia raccontando il risveglio dopo una sbornia o l’appostamento di Batman sul cornicione di un grattacielo di Gotham City. Dall’altra a questa “riduzione” dell’ottica, o meglio a questa concentrazione che punta a ravvicinare lo sguardo e a isolare pochi elementi dal resto, mi viene da accostare una dilatazione del tempo. Il cinema o il fumetto in questo sono linguaggi privilegiati: perché possono lavorare sulla durata in modo più esplicito. Tenere inquadrato un oggetto, un volto o la postura di un corpo per un tempo “innaturale” rispetto alle convenzioni narrative, o dar loro spazio in più vignette. Viene in mente anche a me l’infanzia perché questa concentrazione su dettaglio e dilatazione temporale sembrano proprio tipiche del modo di guardare dei bambini.

C’è un librettino piccolo di Nathaniel Hawthorne che si chiama Venti giorni con Julien, in cui l’autore racconta di essersi trovato costretto a vivere per un po’ da solo con il figlio, senza la moglie né la governante. Una delle cose che ricordo di più sono le passeggiate dei due, per la loro dilatazione e concentrazione insieme: cercare un legno, guardare delle piante, scorticare una corteccia… ma il legno è anche spada, le piante sono anche mostri, le cortecce sono pelle di drago. L’osservazione porta il dettaglio alla metamorfosi, come a riscoprirne l’anima dentro le cose (nel senso proprio di animismo) e allora la cosa qualunque diventa feticcio, ponte verso un altrove, che in qualche modo ha in sé sempre qualcosa di metafisico, di sacro. Un’oscillazione continua tra il dettaglio quotidiano e il salto nel mito. E allora mi trovo a pensare che la differenza che sento tra le storie quotidiane che mi interessano e quelle che mi annoiano (perché diciamocelo, non tutte le storie quotidiane vale la pena leggerle, il rischio della noia o dell’inutilità è sempre in agguato) è che ho bisogno di sentire il mito sotto il quotidiano. In questo Chris Ware è davvero un maestro, a mio avviso, per il modo con cui riesce a far sentire l’eco della realtà, come quando si batte su una parete che è vuota dietro e rimbomba, non è compatta, c’è “un’altra parte”.

Questa dialettica tra mito e realtà io la vedo anche nella stilizzazione grafica di tanto fumetto quotidiano. Perché se ci si pensa c’è un buffo cortocircuito: se pensiamo al disegno realistico (che è una categoria che spesso si ritrova nei premi agli autori), questo è in realtà utilizzato soprattutto per storie “non realistiche”, di avventura o fantastiche. Quando invece il fumetto vuole avvicinarsi alla realtà sembra abbia la necessità di allontanarvisi come segno, di tendere verso l’astrazione, l’idea, l’iconica simbolica. Già Eisner accentua la stilizzazione dei suoi personaggi quando passa ai graphic novel, per quanto le sue figure siano ancora molto complesse, ma è come se si avviasse a un processo che porta con naturalezza all’iconicità di Chris Ware, o alle figure di Jason, o alle astrazioni di Huizenga.

Edo Chieregato: Alice delle città contiene una profonda riflessione sulla visione: per Wenders lo sguardo della bambina è una sorta di regia cinematografica ideale… Io credo che per entrare da “un’altra parte”, come dici tu, serva innanzitutto una nostra predisposizione. In questo senso la riscoperta di un certo sguardo è come continuare a sapersi innamorare. Quando sei con un bambino puoi entrare sempre da un’altra parte, così come quando sollevi la copertina di un fumetto, ma è necessario accettare il “patto narrativo” che ne è sotteso. Il bambino o il buon autore ti possono far vedere (rivedere) se tu accetti quel patto. Questo per dire che il racconto siamo sempre noi prima di ciò che leggiamo, è il nostro desiderio, la nostra necessità, a stabilire se un certo buon racconto ci coinvolge o ci annoia, se lo sentiamo seminale o inutile. Ma oltre alla nostra propensione entra in gioco la nostra capacità di saper leggere, e nel fumetto saper leggere è anche saper vedere.

Mi piace quello che dici sulla dilatazione del tempo che si instaura in certi dettagli. A me piace definire “dettagli significativi” tutti quegli elementi che nel racconto ti paralizzano, nel senso proprio che ti fermi e vai con la testa in direzioni tutte tue. Sono quegli aspetti del racconto che definiscono molto, molto di più, di quello che rappresentano. E non avevo mai pensato che, semplicemente, questa “paralisi” ha proprio a che fare con il congelamento del tempo del racconto.
Un dettaglio significativo può mettere a fuoco un personaggio, una situazione, il senso profondo di una certa storia. Se in letteratura spesso tali dettagli coincidono con lo spirito di osservazione dell’autore, che ne dà forma con la scrittura e la lingua, nel fumetto dove i dettagli possono anche essere disegnati è necessaria una nuova attenzione del lettore, che deve sapere codificare i particolari, il pre-espressivo, il segno e ogni cosa possa essere suggerita, scolpita o modulata dal disegno. Faccio qualche esempio che secondo me rende bene e introduce anche il discorso della stilizzazione grafica che facevi.

Il primo è da Ehi aspetta… di Jason, un piccolo grande capolavoro di cui si è parlato troppo poco. Sappiamo come l’autore sia un grande maestro della sintesi, come sia chirurgico nella gestione del tempo con soluzioni agli estremi (dalla dilazione massima con dei piano sequenza con profondità di campo in cui non accade quasi nulla, a – letteralmente – possibili saltoni temporali nel tempo di uno starnuto) e di come stilisticamente sia passato dal disegno realistico delle sue storie d’esordio a una rappresentazione codificata di umani antropomorfi che sono riconoscibili all’istante (figure come dicevi, o anzi addirittura figurine).

Sappiamo quanto Jason tenda a sottrarre testo e disegno al racconto laddove siano essi accessori. Si potrebbe dire che Jason è essenziale in tutto tanto che ogni elemento se c’è ha significato. Ebbene alla dodicesima tavola c’è una scena dove il protagonista, un ragazzino che ama leggere Batman e sta scoprendo l’altro sesso, per non avere un incontro ravvicinato con una ragazza che si trova nel suo cammino, e di cui probabilmente ha un po’ una cotta, preferisce svoltare e cambiare direzione. La scena si svolge in quattro vignette di uguale formato, e sembra quasi di assistere a un duello tra cowboy dove nelle prime tre abbiamo rispettivamente: visione del contesto (lui e lei si stanno incrociando sulla stessa strada), soggettiva di lui che vede lei di fronte, primo piano di lui con espressione inerme ovvero sempre uguale a come lo abbiamo sempre visto. Ma il tutto, la vera azione, si svolge nella quarta vignetta o meglio in due piccoli tratteggi, anzi due piccole parentesi tonde una interna all’altra, che esprimono con forza il colpo di reni della fuga nella nuova direzione.

Io adoro questa tavola e adoro queste due piccole parentesi perché ci trovo dentro un grande romanzo di emozioni, di azione e implosione. Credo sia questo un perfetto dettaglio significativo, in più un dettaglio che solo il disegno può restituire con questa perentorietà che però richiede di essere decifrata. Trovo straordinario che due piccoli segni mi possano paralizzare perché con così poco sono in grado di trascinarmi dentro la verità del racconto e mi restituiscono, a questi livelli di scrittura, la grande epica che può avere il quotidiano.

Un secondo esempio, che non è certo da meno, deriva da Camicia, il primo racconto pubblicato da Giacomo Monti, che per me e per tutti gli amici di Canicola è un grande classico di sempre. È un racconto breve di poche pagine che narra di un uomo che va con una prostituta. Il racconto è emblematico nel sintetizzare la grande sapienza narrativa di Monti e per suggerire anche la sua particolare sensibilità di poeta del quotidiano, della diversità e delle relazioni umane. Ogni anno presento questo racconto ai miei studenti e non so se riuscirò mai a trovare un esempio migliore per far aprire gli occhi.
Nel finale del racconto, dopo che i due personaggi hanno fatto sesso ma non abbiamo visto nulla, dopo che c’è stato tra loro un dialogo tragicomico che rivela in pochissimo l’umanità di entrambi, dopo che abbiamo scoperto che tutta la vicenda si è consumata in pochi minuti, nell’ultima vignetta, dopo che i due si sono salutati, c’è un dettaglio che ci mostra la prostituta che con una mano si toglie l’elastico delle mutandine tra le chiappe del sedere.

Questo per me è un altro grande dettaglio significativo, perché quel gesto è un mondo di narrazione, e quell’elastico diventa tutti gli elastici che si sono mai intrufolati tra le chiappe di una donna, o di un uomo, o di un trans. Ma nel racconto, se lo vai a rileggere, scopri che anche la pagina interamente bianca dell’amplesso non è cosina da poco (Monti ci dice: caro lettore, riempi tu la pagina come vuoi, immagina tu quello che credi, dai tu il tempo a ogni cosa, fallo in base alla tua educazione, alle tue abitudini, al tuo desiderio), così come quel minuscolo orologio da parete diventa rivelatore nel dirci la durata oggettiva del racconto e di conseguenza suggerisce chiavi più profonde di lettura.

Credo che Jason e Monti siano due maestri della stilizzazione, sono autori che sanno controllare il tempo del racconto con pochissimi mezzi, e che sanno emozionare con decisione raccontando storie del quotidiano spesso ridotte ai minimi termini, senza particolare spettacolarità o ammiccamento al lettore (in certi casi nel racconto quotidiano l’autore si sente in dovere di aprire un piccolo siparietto, spesso è un segnale tangibile di insicurezza dove si cerca il consenso e l’affetto di chi legge).

Emilio, per quanto riguarda il rapporto tra il mito e la realtà credo di aver capito quello che dici, ma ho la sensazione che possa essere una tua esigenza particolare, un po’ da lettore e un po’ dall’ermeneuta pazzo che sei. Probabilmente tu intendi anche una consapevolezza inconscia durante la lettura, ma di fronte al quotidiano come degenere, a me ormai succede semplicemente che smetto di leggere e passo ad altro. Credo che la tua lettura del segno sia molto sofisticata e non vorrei fosse troppo razionale, o forse invece non stiamo parlando d’altro che della magia del disegno che ti tiene o non ti tiene. Per me la fascinazione è innanzitutto estetica, emotiva. Non sono troppo interessato alla decifrazione del segno, questo non significa che non vi trovo le tante declinazioni narrative dello stile ma solo che lì difronte ho bisogno di stupirmi. Ecco, un segno che mi stupisce mi fa rivedere di nuovo, ritorno il bambino che guarda il sasso.

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